La politica degli “amichevoli” divorzi
Oggi voglio riprendere e commentare insieme a voi la notizia del divorzio tra Alan Jackson (foto a lato) e la sua casa discografica, l’Arista (notizia data due settimane fa). Per certi versi questo amichevole addio (ma esistono poi addii di altro tipo ormai?) non è una sorpresa. Riprendendo alcuni – vaghi – commenti rilasciati da AJ nel corso del 2010 il finale della loro storia poteva essere considerato per molti aspetti già scritto.
Di certo la Arista in più di vent’anni ha permesso al cantante georgiano di farsi uno dei più grandi nomi nel panorama nashvilliano moderno, e questo può avvenire solo se all’artista viene lasciata una sufficiente indipendenza artistica e produttiva (d’altronde il sodalizio con Keith Stegall ha fin dai primi anni dato ottimi frutti). Il comunicato della Sony, la “mamma” della Arista, reso noto settimana scorsa, recita semplicemente “Sony Music Nashville desidera ringraziare Alan Jackson per il loro lungo sodalizio. Con una separazione amichevole, Sony conferma che Alan ha consegnato le sue ultime incisioni alla casa discografica e gli fa i migliori auguri”. Con l’Arista AJ ha speso finora la sua intera carriera, pubblicando il suo primo album (“Here In The Real World”) nel 1990 e il suo ultimo (“Freight Train”) quasi un anno fa.
In questi ultimi tempi, benché il fenomeno sia sempre esistito (ricordo l’altra “amichevole” separazione tra Patty Loveless e la MCA nel 1992) in generale l’impressione è che ci sia molta meno fedeltà da parte degli artisti nei confronti delle loro case discografiche. D’altra parte non è scritto da nessuna parte che si debba restare legati vita natural durante ad una etichetta, specie se questa non riesce a realizzare appieno il tuo potenziale. Allora, a maggior ragione in assenza di clausole capestro, perché non poter andarsene se per qualsivoglia motivo dove ci si trova non si ha più niente da dire? Chissà perché il pensiero di un Bob Dylan o di un Bruce Springsteen che abbandonano la Columbia sarebbe dai più considerato un’eresia quand’anche non vendessero più nulla.
Nel mondo della musica country sono molto poche le “vacche sacre” che rimangono fedeli alla loro unione contrattuale: penso che se domani George Strait lasciasse la MCA (che pubblica da 30 anni i suoi dischi) sarebbe davvero una notizia da prima pagina. Penso anche, però, che questo non avverrà mai. Quando Reba (foto a lato) decise di fare i bagagli e andare nella scuderia della Big Machine – che in pochi anni si è affermata come la più importante etichetta a Nashville – fu da una parte una sorpresa ma neanche tanto dall’altra, in quanto le voci di un suo salto circolavano già da tempo e Reba è sempre stata una strepitosa manager di se stessa sapendo sempre fiutare gli eventi a Nashville e dintorni prima che questi accadessero. Altre voci autorevoli vogliono Tim McGraw in partenza dalla Curb (lo stesso Tim non fa ultimamente mistero di volersene andare).
Questi sono d’altronde i tempi dei cali di vendite e di chiusure delle case discografiche: l’idea di promettersi reciproco ed indissolubile amore oggi non pare proprio essere tra le esigenze primarie di nessuna delle parti in gioco a Music City. Se poi si parla di una personalità ormai consolidata e senza particolari problemi di mercato, come nel caso di AJ, il problema neanche si pone. Alla vigilia della sua partenza dalla Arista il suo stringato commento è stato significativo in questo senso: «Mi pare sia il tempo giusto per cambiare un po’ le cose e vedere cosa viene dopo». Semplicemente stufo? Intanto, sul blog Our Country di Yahoo è apparso giorni fa un articolo di Chris Wilmann il quale afferma di avere intervistato Nancy Russell, il manager di Jackson, che avrebbe affermato che al momento Jackson non è pronto per andare con nessun’altra casa discografica ma che quando sarà il tempo si tratterà di un’altra major. «Alan ha chiesto alla Arista di essere lasciato libero già a settembre» ha detto Russell a Wilmann «ma abbiamo deciso in quel momento che avremmo comunque aspettato l’uscita del greatest hits e l’avremmo sostenuto». Russell ha ammesso che ci sono già stati dei contatti con altre case discografiche, ma nulla di più di semplici colloqui. Chris Wilmann aveva parlato con lo stesso Jackson un anno fa e pare che il cantante non fosse più contento sul supporto che la Arista gli stava dando: «Oggigiorno le case discografiche ti fanno capire in un modo o nell’altro che non hanno più i soldi necessari per promuovere più nulla, quindi non so… Molta gente ormai realizza le migliori cose per conto proprio e pubblica dischi in maniera indipendente. Ma non cambierà nulla per quanto riguarda i fan, è solo una diversa prospettiva per noi dalla quale considerare questo business. Per quanto mi riguarda, continuerò a stare in tour come adesso, a fare i miei 40-50 spettacoli fino a che i biglietti continueranno ad essere venduti e le radio continueranno a trasmettere le mie canzoni».
L’addio tra AJ e Arista non ha secondo me ragioni legate alla diminuita popolarità del cantante; “Freight Train” non avrà avuto neanche una numero uno ma ancora vende e mantiene singoli in classifica. Ormai credo che anche qui tutto sia legato al dio denaro: le grandi superstar che una volta schiantavano tutti i record di vendita oggi non vendono più come prima. Le case discografiche che prima avrebbero fatto qualsiasi cosa per trattenere un artista di prestigio nel loro team, ora ne vanno a cercare di nuovi sguinzagliando i loro scopritori di talenti per rimpinguare le scuderie mentre i più famosi vanno via, andando a guardare ovunque. Quale sarà il destino di Jackson? Big Machine? Show Dog (l’etichetta di Toby Keith)? Non credo Warner né Universal: la prima pare non navighi nell’oro in questo periodo, la seconda ultimamente sta lasciando a piedi diversi artisti, maggiori e minori, che non garantiscono più determinati introiti.
E’ un mondo duro, là fuori, e ciò che Alan Jackson ha fatto è lì a darcene una definitiva conferma.