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Terremoto country music. Epicentro: Voghera Country Festival 2013

Posted by CountryStateLine on 28th giugno 2013 in Home (News)

Ci siamo. La sesta edizione del Voghera Country Festival è arrivata. E’ un’edizione speciale. Un po’ perché viene dopo quella che ha visto il maggior successo di pubblico nella storia del festival, con la canadese Terri Clark padrona del palco davanti a più di duemila country fan entusiasti. Un po’ perché la macchina organizzativa quest’anno si è davvero messa in moto in maniera massiccia, con una campagna pubblicitaria che, manifesti a parte, ha investito in maniera consistente. Soprattutto sulla rete, dove i comunicati e le segnalazioni si susseguono già da mesi. In effetti il nome di Pat Green, stella dell’edizione 2013 in arrivo a Voghera, è stato reso noto con grande anticipo, rendendo possibile un notevole passaparola. Tanto che non si trova più un buco in nessuna struttura ricettiva in un raggio di 20 km dal Cowboys’ Guest Ranch, epicentro del terremoto country che caratterizzerà questo weekend. Sembra quindi annunciato davvero il tutto esaurito per questo giovanotto texano di 41 anni che ha cominciato come un po’ tutti hanno cominciato: ascoltando ogni genere di musica che arrivava al suo orecchio. D’altronde, per un ragazzino cresciuto in una famiglia allargata con otto tra fratelli e sorelle (la madre divorziò quando egli aveva sette anni per risposarsi con un patrigno che aveva già cinque figli) le esperienze – non solo musicali – sono state innumerevoli.
Nato a San Antonio ma cresciuto a Waco, Pat cominciò a pensare seriamente ad una carriera di musicista e cantante mentre frequentava il Texas Tech College di Lubbock e neanche per motivi prettamente professionali: aveva infatti scoperto che alle donne piaceva sentirlo cantare e lo aiutava a rimorchiare. «Prima di allora» ha detto una volta in una intervista a CMT «cantavo solo nella doccia. Imitavo con facilità le voci di altri cantanti e mi ci volle un po’ per trovare la mia voce ma una volta riuscito mi ci trovai molto a mio agio. So che non è bello a dirsi ma è così.» Il passaggio dall’immaginare una carriera a viverla sul serio fu come l’accensione di un fiammifero: improvvisa e intensa.
Dopo i primi dischi autoprodotti (il primo dei quali, “Dancehall Dreamer”, del 1995, chiedendo in prestito ai suoi genitori 12mila dollari!), Green si trovò a passare nel giro di pochi mesi dal centinaio di spettatori dei bar e degli honky tonk della zona nei sabato sera alle migliaia di fan del “Willie Nelson’s July 4th Picnic”, al quale fu invitato dallo stesso Nelson proprio in virtù della sua crescente popolarità. In pratica, Pat stava compiendo esattamente il percorso inverso rispetto a quello che ogni aspirante cantante cerca di realizzare, vale a dire trovare al più presto un contratto con una grande casa discografica. Invece il nostro, senza l’aiuto né della grande distribuzione né di una major, con i primi tre dischi autoprodotti tra il 1995 ed il 2000 si trovò ad aver già venduto quasi 300mila copie. E’ solo a quel punto che Green decise di cedere alla corte della Universal che nel 2001 gli propose un contratto e il disco successivo, “Three Days”. Anche perché l’autoproduzione aveva un grave svantaggio: «Continuavo a sbattere contro un muro» spiega lo stesso Green «Ero per esempio ad Atlanta per esibirmi davanti a 1000 persone che andavano entusiaste al negozio di dischi ad un isolato di distanza per comprare i miei cd ma il negozio non li aveva». Nel 2003, con “Wave on Wave”, sesto disco della sua carriera e secondo pubblicato con la Universal, Pat tocca il suo vertice: critiche entusiaste, secondo posto nella classifica country americana, 500mila copie vendute. Nel 2004 con “Lucky Ones” scrivono insieme a lui calibri come Brad Paisley (sua la canzone “College”), Radney Foster, Wade Bowen e Rob Thomas. Ma il picco di “Wave On Wave” non sarà più toccato. Pat è sempre più insoddisfatto del suo rapporto con la Universal (e dei rapporti con una major in generale), in quanto lo costringe in ambiti che mortificano la sua libertà creativa di autore e la sua libertà di artista. Passa così prima alla sussidiaria country della Sony, la BNA, per la quale pubblica a mio parere i suoi migliori lavori in assoluto (“Cannonball” nel 2006 e “What I’m For” nel 2009) per poi approdare ad etichette indipendenti, per l’ultima delle quali (Sugar Hill) ha pubblicato il suo ultimo lavoro, “Songs We Wished We’d Written II”. E’ l’ideale seguito di un disco autoprodotto del 2011 in cui per la prima volta incideva come da titolo le canzoni che avrebbe voluto scrivere lui. Se là cantava Waylong Jennings, Billy Joe Shaver e Steve Winwood, qui canta perle di Lyle Lovett, Tom Petty, Shelby Lynne e Jon Randall.
Pat Green è una personalità musicale sfaccettata e multiforme, capace interprete che vive il suo tempo e ne esterna le contraddizioni e le varie influenze.  In Texas è una vera e propria stella (il premio del decennio ricevuto dalla Texas Music Chart come l’artista più suonato nelle radio texane durante il decennio 2000-2010 ne è la riprova), e la sua nomination ai Grammy Awards nel 2003 per “Wave on Wave” lo ha consacrato anche a livello nazionale. Il suo è un country che miscela pop e southern rock ma che trascende anche i generi propriamente intesi. «Amo i Lynyrd Skynyrd e gli Allman Brothers. Molto di quello che facciamo si ispira a questi gruppi. Il southern rock è grande. Ha anima. Amo fondere il blues e il rock nel country perché questo infonde nel country due elementi che fanno la differenza. Questo è ciò che lo rende reale».
Insomma, odiatelo o amatelo. Ma l’esperienza di un concerto di Pat Green dal vivo è qualcosa che non dimenticherete facilmente.
Appuntamento domani sera alle 22 al Cowboys’ Guest Ranch di Voghera. Tutte le info sul sito http://www.vogheracountryfestival.com/
M.A.