Country Night 2011, 9-10 settembre 2011, Gstaad (CH)
Qualunque sia il vostro pensiero sul modo in cui viene organizzato, dovrete convenire con me che il Country Night festival, in Svizzera, da più di vent’anni offre intrattenimento musicale di alta qualità sia da un punto di vista dei nomi in cartellone che da quello della professionalità e delle competenza di tutte le maestranze coinvolte, che ogni anno prestano la propria opera per la buona riuscita di quello che dagli addetti ai lavori viene considerato il miglior evento di musica country dal vivo in Europa. Per quanto mi riguarda, per esempio, io rimango ogni anno estasiato guardando come i tecnici e i responsabili del palco riescano a montare attrezzature, sistemare cavi e bilanciare gli impianti nel giro di 5 minuti tra la fine di una esibizione e l’inizio della successiva. Comunque, certo ogni anno ognuno di noi avrà sperato che al festival arrivasse il proprio cantante preferito e molti sono coloro per i quali questa speranza è rimasta finora vana – me compreso – ma è dal 1996 (anno in cui frequento questa manifestazione) che chiunque viva questa due giorni di musica country (e non solo) torna a casa senza mai pentirsi di essere andato fin lassù, ai poco più di mille metri di quota a cui si trova Gstaad, nel cantone di Berna, dove il festival si svolge.
Alla 23esima edizione, svoltasi gli scorsi 9 e 10 settembre, hanno preso parte Trace Adkins, Dailey & Vincent, Laura Bell Bundy e le Sister Morales.
SISTER MORALES
A salire per prime sul palco Sister Morales, il duo di sorelle (per l’appunto) composto dalla mora Lisa e dalla bionda Roberta. Dalla natìa Arizona hanno sempre cantato fin da piccole grazie alla mamma cantante e compositrice e fin da subito hanno familiarizzato con la musica messicana, finendo per amarla profondamente. La musica tex-mex è infatti parte sostanziale del loro background musicale e non hanno esitato a darne prova anche sul palco della Country Night facendo accompagnare le loro chitarre acustiche e la fusione perfetta delle loro voci dalla tromba di Al Gomez, dal violino di Haydn Vitera, dal basso di Michael Traylor, dalla batteria e percussioni di Ian Bailey, dalla chitarra elettrica di David Spencer (loro fidato collaboratore fin dall’esordio discografico del 1997) e dalla (immancabile) fisarmonica di Robert Rodriguez. E’ strano aver considerato mentre le ascoltavo che Lisa e Roberta non solo hanno cominciato a suonare insieme in un secondo tempo della loro carriera professionale (avendo percorso fino al 1989 strade artistiche separate) ma da parecchio tempo annunciano una nuova separazione artistica – volta a permettere loro di seguire carriere soliste – che però non è ancora avvenuta. Settembre 2011 doveva essere l’ultimo mese di esibizioni in duo ma mentre scrivo hanno annunciato concerti in Texas fino a metà novembre. Ad ogni modo la loro esibizione è stata molto bella, ed anche se la lingua messicana l’ha fatta da padrone (“Algo Tonto”, “Cancion Mixteca”, “La Canoera”, “La Mucura”) non sono mancate escursioni di pregevole fattura nel country folk (“It Only Gets Better”, “Someplace Far Away From Here”, “Misguided”,) quasi sempre a firma delle due sorelle, che sono anche superbe autrici. La chitarra elettrica di David Spencer, dove già non bastavano le due acustiche di Lisa e Roberta, ha imbastito in maniera impeccabile ed infiocchettato gli assoli come meglio non avrebbe potuto mentre la fisarmonica di Rodriguez ha seguito il corso della musica accompagnando senza mai debordare neanche quando le è stato lasciato spazio da prima attrice. Le due sorelle sono state così brave che fatta da loro è risultata ben inserita nel contesto anche la versione di “Ponernos de acuerdo”, forse il successo più famoso in Italia della cantante latino-pop Marcela Morelo (parliamo dell’anno 2000).
LAURA BELL BUNDY
Per quanto mi riguarda la rivelazione è stata la seconda a salire sul palco, la biondissima 30enne Laura Bell Bundy, nata in Ohio ma cresciuta in Kentucky sempre con in sottofondo la musica country che la madre ascoltava in continuazione. Con Dolly Parton nel cuore, tra un ruolo minore ed un altro nel mondo del cinema (era ad esempio la giovane Sarah Whittle che giocava col giovane Alan Parrish/Robin Williams in “Jumanji”), grazie alla sua voce, alla sua gradevole presenza e alla sua passione per il ballo Laura è però approdata ai musical, dei quali è diventata interprete piuttosto popolare sia “off” che “on” Broadway (a partire da “Ruthless!” fino ad arrivare a “Legally Blonde” passando per “Hairspray”) raccogliendo tra il 1993 ed il 2008 consensi e nomination sia ai Drama Desk Award che ai prestigiosi Tony Awards (gli Oscar dei musical). Nel 2007 prova la carta country music con una etichetta indipendente senza troppo successo (il suo primo disco “Longing For A Place Already Gone” di certo non ha lasciato il segno) ma è con la produzione della Mercury Nashville che nel 2010 riesce a farsi puntare addosso i riflettori della popolarità salendo a maggio sul palco dei 45esimi ACM Awards per cantare dal vivo “Giddy On Up”, il primo singolo del suo secondo disco “Hachin’ and Shakin”. E’ sull’onda del successo di questo album che Bell Bundy è arrivata a Gstaad accompagnata da una band davvero incredibile (la più numerosa di questa edizione: 8 componenti) composta da Andy Davis e John Bohlinger alle chitarre, Ryan Ogrodny alla chitarra, sax e mandolino, Jeff Pegues alla batteria, Rob Cureton al basso, Scott Joyce alle tastiere ma soprattutto dalle ballerine di colore (e voci) Robin Batey e Asmeret Gherbremichael. Queste ultime devo dire hanno dato un ulteriore tocco di vivacità e di divertimento allo show, accompagnando Bell Bundy in una serie di piccole coreografie accuratamente studiate, praticamente una per ogni canzone che non fosse una ballata, che con movimenti ammiccanti e sensuali hanno piacevolmente attirato l’attenzione del pubblico (soprattutto i maschietti…) distogliendolo dal pensare che nella musica della nostra bionda amica di country ce n’è proprio pochino (men che meno classico) e mettendo in risalto il suo punto di forza, cioè la capacità di interessare il popolo della line-dance. Tra l’ “hachin’” e lo “shakin’” del suo ultimo disco Laura ha prediletto senza ombra di dubbio lo “shakin’”eseguendone solo un lento (“Drop On By”) e tutte e sei le sue tracce veloci. Oltre alla nota e già citata “Giddy On Up”, quindi, sono arrivate “Boyfriend”, “Everybody”, “Rebound”, “If You Want My Love” e “I’m No Good (For Ya Baby)” (con cui ha aperto l’esibizione). Non poteva mancare un omaggio a Dolly Parton con “9 To 5” e, visto il peperino che la caratterizza, un salto giù dal palco con breve passeggiata fra la platea durante “Everybody”. Due brani nuovi cantati da Laura sono stati la lenta “Another Piece Of Me” e la veloce “She Only Wanna Dance”, che probabilmente saranno inseriti nel suo nuovo terzo album in uscita all’inizio del 2012. Per la lenta “That’s What Angels Do”, invece, Laura ha preso a prestito un successo di Lila McCann di qualche anno fa, eseguedolo però con un’intensità che mi è piaciuta molto e che ha generato molti applausi. Il bis è stato un omaggio ai Creedence Clearwater Revival con “Proud Mary” (che molti erroneamente ricordano come “Rollin’ On A River”). In conclusione uno show mai noioso per un’artista dalla voce comunque molto interessante che è anche una bella donna e che conosce – cosa nient’affatto trascurabile – il valore dell’umiltà e del contatto con il pubblico: a fine show Laura è comparsa infatti nel tendone secondario del festival spendendo circa un’ora a firmare autografi e fare foto con i presenti.
DAILEY & VINCENT
Su Jamie Dailey e Darrin Vincent, in arte Dailey & Vincent, saliti sul palco un’ora dopo Bell Bundy, non nutrivo neanche la più piccola ombra di dubbio. Nato discograficamente solo nel 2008, con una messe di premi meritatamente vinti all’IBMA di quell’anno, oggi è il duo bluegrass di maggior successo sulla scena. I due però masticano musica dalla tenera età e calcano le scene da tanti anni: Dailey con artisti quali Doyle Lawson & Quicksilver, Vincent girando gli States con Ricky Skaggs e i suoi Kentucky Thunders prima e con sua sorella Rhonda Vincent poi (è con entrambi infatti che avevo avuto modo di sentirlo la prima volta, dato che sia Skaggs che Rhonda sono passati per il festival di Gstaad nel corso del tempo). Sapevo che il loro show sarebbe stato strepitoso e che avrebbero incantato e entusiasmato la platea. Così è stato. Saliti sul palco con – rispettivamente – chitarra e contrabbasso insieme a Christian Davis (chitarra), Joe Dean jr. (banjo e chitarra), Jeff Parker (mandolino e chitarra) e BJ Cherryholmes (violino) hanno dato vita ad uno spettacolo pieno di musica bluegrass di livello assolutamente superiore, di siparietti comici, di battute salaci con le quali si sono presi amabilmente in giro da soli e con cui hanno divertito ed intrattenuto il pubblico per un tempo che è apparso davvero troppo breve, nonostante abbiano prolungato di un quarto d’ora abbondante l’esibizione di sabato in seguito all’incontenibile entusiasmo di un pubblico che non li voleva lasciare andare via. «Buonasera a tutti» ha detto per esempio Dailey presentandosi «io sono Jamie Dailey e questo è Darrin Vincent. Suonavamo insieme da quando lui era alto così!» e ha teso la mano ad indicare l’altezza (non propriamente esagerata) di Darrin. Peccato che la mano indicasse l’altezza attuale, con grande risata della platea e reazione di divertita stizza di Darrin. In realtà è il sestetto nel suo insieme a funzionare come un meccanismo a incastro dove ogni tempo è settato alla perfezione e dove tutto deve avvenire al momento giusto. Questo è vero sia per quanto riguarda la musica, fusa con le loro fenomenali voci, che per quanto riguarda i tempi dei loro scambi di battute, degli sguardi e delle reazioni tra di loro quando pongono in essere quei siparietti comici di certo studiati a tavolino ma che appaiono così naturali e spontanei.
La scaletta ha compreso sia alcuni brani a carattere prettamente ispirazionale/religioso che intingono nel gospel, tratti dal loro ultimo lavoro “Singing From The Heart”, che canzoni del loro precedente “Brothers From Different Mothers” ma anche un paio di brani dal loro onomimo disco d’esordio del 2008. Nel primo caso spesso gli strumenti si sono fatti da parte per esaltare la divina (è il caso di dirlo) armonia delle voci, ivi compresa quella incredibilmente baritonale di Christian Davis che ha sempre scatenato l’entusiasmo dei 3000 in platea. Ne sono un esempio sia “Moses Smote The Water” che “Joshua Fit The Battle of Jericho”. Del gruppo hanno fatto parte anche la classica “Amazing Grace”, “Oh To Be Like Thee” e “Don’t You Wanna Go To Heaven” con uno strepitoso finale a cappella in crescendo. A ripensarci non c’è stata una vera e propria scaletta quanto piuttosto un canovaccio di quattro/cinque brani di base intorno al quale Dailey e Vincent hanno infarcito l’esibizione decidendo quasi all’impronta cosa cantare, con gli altri quattro che sono riusciti a recepire ed in pochi secondi a farsi trovare pronti a partire con una incredibile sintonia, sinceramente mai vista prima. La perfezione tecnica è eccezionale: ascoltati dal vivo non hanno mostrato differenze percepibili rispetto alla incisione su disco. Devo dire che questo livello di virtuosismo lo avevo riscontrato solo con Ricky Skaggs ma a differenza di quella esperienza, lo show di Dailey & Vincent (più che quello di sua sorella Rhonda, pure strepitosa) è stato molto più divertente, rendendo assai più leggero l’ascolto di un genere, il bluegrass, che di per se stesso non è famoso per essere tale.
Dal primo album il duo ha estrapolato poi una bella versione di un’altra canzone bluegrass di carattere bucolico-ispirazionale, “I Believe” di Jimmy Fortune, e la tradizionale veloce “Cumberland River”, uno dei loro cavalli di battaglia. Molto gradita anche “The Hills of Caroline” di Vince Gill, mentre “Elisabeth” è stato invece un omaggio agli Statler Brothers, cui il duo dedica l’intero e più recente cd “Dailey & Vincent Sing The Statler Brothers” (disponibile però solo negli Stati Uniti). Le veloci “Your Love Is Like a Flower” e “Girl In The Valley” sono state invece estrapolate da “Brothers From Different Mothers”, mentre con “Take Me Home Country Roads” tutti e sei insieme hanno omaggiato il grande John Denver. Jamie Dailey ha ritagliato un ulteriore spazio per se’ e per la sua stupenda tenorile voce, accompagnato solo dalla chitarra acustica e dal background vocal di Darrin, interpretando un altro (nuovo) bellissimo brano di Jimmy “The Statler Brothers” Fortune, spero presente sul prossimo cd, dal titolo “Come Back To Me”, dolce e triste ricordo di un figlio per il suo papà che mi ha particolarmente emozionato. «Ascoltate le parole di questa canzone» ha detto prima di cantarla «Se non vi piacciono non applaudite. Ma se vi piacciono, fatecelo sapere.» Inutile dirvi cosa sia successo al termine della esecuzione: tutti in piedi per un lunghissimo, sincero ed emozionato applauso che si è rinnovato al termine dell’encore con una seconda standing ovation quando questi sei strepitosi musicisti e cantanti hanno chiuso con un’altra hit degli Statler Brothers, “One Less Day To Go”, comprensiva di passerella e inchini finali. Che spettacolo!
TRACE ADKINS
Se anche l’edizione del Country Night Festival 2011 si fosse chiusa qui, devo confessarvi che – col senno di poi – me ne sarei tornato a casa pienamente soddisfatto. Devo però essere sincero: ciò che mi ha fatto decidere di venire fin quassù è stata la presenza in cartellone di Trace Adkins, l’attesa star di quest’anno. Come me, a giudicare dal numero di fan in attesa del suo ingresso sotto il palco già dall’uscita di scena di Dailey & Vincent, molti devono essere venuti a Gstaad per lui. Non l’avevo mai visto dal vivo ma conosco l’artista: non ha la fama di intrattenitore e di certo non mi aspettavo uno show alla Garth Brooks o alla Kenny Chesney. Le mie aspettative maggiori credo quindi riguardassero la selezione musicale: essendo il suo esordio in terra europea, e sapendo quanto sia difficile il pubblico svizzero se non gli dai quello che si aspetta, speravo che per lasciare le migliori sensazioni ci avrebbe risparmiato la parte del suo repertorio country più “stone-cold” e hard-rock. Purtroppo mi sbagliavo, anche se ha addolcito bene la pillola. Ma andiamo con ordine. Trace è uscito sul palco indossando solo i suoi bicipiti e i suoi pettorali coperti da un jeans, una t-shirt grigia con stivali e cappello da cowboy neri preceduto dai 7 membri della sua band (Greg Baker al basso, John Spittle alla batteria, Wayne Addleman alla steel, Paul Reissner al violino, Brian Wooten e Mark Gillespie alla chitarra, Jon Coleman alle tastiere) al ritmo di un poderoso medley composto da “Whoop A Man’s Ass” e “Hillbilly Bone” (e in pochi, devo dire la verità, abbiamo urlato “yee-haw” quando Trace ha puntato verso il pubblico il suo microfono dopo le parole “You can’t help but hollering…” di “Hillbilly Bone”). Di certo un inizio bello picchiato. Fermo e piantato per gran parte della esibizione dietro all’asta del microfono, afferrandolo per concentrarsi sulla voce all’inizio un pò timida (ma lui è così!) ma poi davvero al suo massimo, ha proseguito con il country-rap (da sua stessa definizione!) di “Chrome”, poi “Ladies Love Country Boys”, “You’re Gonna Miss This” e “This Ain’t No Love Song”. Poi di nuovo picchiando il bel country rock di “Hot Mama”. Sentivo che Trace non riusciva a sfondare, non arrivava al pubblico che non rispondeva e gli ritornava il poco che sentiva arrivargli, anziché incoraggiarlo e scaldarlo. Era pur sempre l’esordio al di fuori degli States e Trace forse percepiva la difficoltà di cantare per la prima volta davanti ad una platea che non cantava con lui, che non gli “afferrava” i ritornelli e non sapeva come fare. Ha parlato ancora meno del suo solito, neanche il minimo per presentare se stesso né tantomeno la sua band. Dopo il primo singolo del suo nuovo album, “Just Finshin’” finalmente ha pescato dai suoi esordi con “Every Light In The House” ma rimaneggiandola con un arrangiamento molto spoglio che non mi ha soddisfatto. Non si è fermato e ha proseguito con “Million Dollar View” ma almeno è apparso ormai comunque a suo agio: camminava sul palco concedendosi alle telecamere (c’era la tv svizzera che riprendeva) e alle macchine fotografiche che lo immortalavano nonostante i ferrei divieti della organizzazione a scattare foto dopo il primo brano (neanche senza flash! Bisogna farlo di nascosto… dopo tutti questi anni io ancora non ho capito il perché! Qualcuno me lo spiega?). Inaspettatamente, quasi per divertimento, dopo essersi asciugato il sudore e aver sciolto la sua lunga coda di capelli biondi ora non più coperta dal cappello, si è buttato su un pezzo funky-pop semisconosciuto degli anni ’70 cantato a quei tempi dagli Ace, “How Long (Has This Been Goin’On)” che qualcuno di voi dai 40 anni in su magari avrà anche ballato in discoteca, reso più graffiatamente rock dalla sua voce roca e dallo strepitoso arrangiamento della sua band. Ma la tiepidezza dal pubblico a questo punto stava diventando quasi imbarazzante. Io penso sarebbe bastato inanellare 3 o 4 “vere” country song delle sue, con cui negli anni ’90 ha spopolato, per raddrizzare le sorti dello show. Quasi come risposta a questo poco ardore è arrivata a questo punto “Songs About Me” (“…I sing for a living… Country music mixed with a little rock and a little blues… Cause they’re songs about me and who I am…” dice nel testo, come a dire “me ne fotto”). Due cowgirls avventuratesi sotto il palco accennando due passi di line dance hanno ricevuto in premio un suo sommesso ringraziamento («Thanks to those country ladies!» ha detto Trace dal palco lanciando loro un bacio con il gesto della mano). Lui è un maledetto testardo, nella vita ha sempre fatto come voleva vincendo alla fine le battaglie più importanti infischiandosene del giudizio altrui, nella vita privata come in quella professionale. E allora ha chiuso lo spettacolo con l’abbinata “Brown Chicken Brown Cow” e “Honkytonk Badokadonk” senza scalfire più di tanto l’apatia svizzera che ormai si tagliava a fette. Ma ecco l’inatteso: forse percependo dal backstage l’impotenza della musica di Adkins in questo senso, benché profumata di doccia, è salita di nuovo sul palco Laura Bell Bundy accompagnata dalle sue ballerine Robin e Asmeret che – anche con grande sorpresa di Trace, come potete vedere dalle foto che pubblico – hanno cominciato a ballare ed ancheggiare al ritmo di “Honkytonk Badokadonk” facendo svegliare la platea dal torpore e portandola a temperatura più consona. Meno male, Trace meritava almeno una degna conclusione. Certo, un testardo come lui non lo avrebbe mai ammesso ma pezzi assenti dalla scaletta come “No Thinkin’ Think”, “Snowball in El Paso”, “Twenty-Four, Seven”, Nothin’ But Taillights”, “Hauling One Thing”, “There’s a Girl in Texas” e “I Left Something Turned On At Home” avrebbero secondo me sortito ben altro effetto alla stordita audience svizzera.
Con quella punta di insoddisfazione che ti coglie sempre, nonostante tutto, quando le tue aspettative vengono in parte disattese ma felice per un’altra indimenticabile esperienza musicale, non mi rimane che darvi appuntamento a Gstaad per il prossimo anno: ci vediamo il 21 e il 22 settembre 2012!
Massimo Annibale
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