Billy Dean, “Independence Day Festival”, 4 luglio 2009 – Cowboy Guest Ranch
Quando ti va bene una volta i malpensanti e gli invidiosi possono affermare che tu abbia avuto solo fortuna. Premesso che essa è comunque un ingrediente fondamentale del successo, di certo le conferme dopo un buon esordio sono più difficile da ottenere. Per tale motivo sotto questo aspetto, in occasione della seconda edizione dell’Independence Day Festival, CWE e Cowboys’ Guest Ranch hanno compiuto un altro piccolo miracolo dimostrando coi fatti che l’idea di questo evento country è azzeccata e che, semmai, necessita solo di qualche piccolo aggiustamento di alzo e direzione.
Come annunciato su CountryStateLine nella presentazione del 27 giugno scorso (che potete rileggere qui > www.countrystateline.com/?p=91) la star del festival 2009 è stata Billy Dean, artista versatile e talentuoso, arrivato con la piena dei primi anni ’90 ma – a differenza di molti altri giunti insieme a lui – rimasto sempre in piena attività. Direttamente da Nashville a Voghera per quest’unica data italiana, l’artista americano si è presentato vocalmente in forma smagliante (fisicamente ci vuole poco, data la sua altezza rasentante i due metri) e poco hanno potuto i 35 gradi di un afoso 4 luglio contro l’entusiasmo delle centinaia di fan accorsi al Ranch (perlopiù, a onor del vero, appassionati di line dance prima ancora che di musica country).
Dean ha regalato ai fortunati presenti due ore di musica dal vivo di altissima qualità quale raramente mi è capitato di sentire nel mio peregrinare per festival, screditando i detrattori a prescindere che senza neanche degnarsi di fare un salto a Voghera avevano dato per scontata una sua esibizione similcountry orientata al pop. Ma la vera carta vincente di Billy è stata quella di portare con sé uno stuolo di musicisti di prima grandezza con cui ha saggiamente voluto condividere pressoché alla pari il palco, arricchendo in termini assoluti il valore della sua performance: Monty Powell alla chitarra elettrica e voce, Ray Barnette al basso e voce, Vince Barranco alla batteria, Jim Kirby al piano e tastiere ed Anna Wilson alle tastiere e background vocals. “Piccolo” neo: la mancanza di un pedal steel player. Era accaduto anche l’anno scorso e speravo che già quest’anno il budget a disposizione del festival avrebbe potuto farne arrivare uno. Il buon Fabrizio Salmoni, della rivista American West, in conferenza stampa lo ha fatto notare anche a Billy, che se ne è dispiaciuto: quel tipo di musicisti costano parecchio e in Italia non è facile trovarli – come dire – “all’altezza”…
Comunque, con mezz’ora esatta di ritardo rispetto all’orario stampato sui manifesti (stratagemma per evitare ingressi in ritardo?) Billy Dean dunque sale sul palco del Cowboys’ Guest Ranch alle 22: cappello da cowboy nero a tesa corta, camicia bianca manica lunga, gilet nero, jeans e stivali urla alla platea un energico “ciao!” (come da sua confidenza l’unica parola italiana che conosce, insieme a grazie e prego) seguito da due “are you ready?” (siete pronti?) per poi buttarsi a capofitto con due up tempo, “Cowboy Band” e “Men’ll Be Boys”, per coinvolgere fin da subito il pubblico. Benché reso più sostenibile da due immagino utilissimi ventilatori postigli davanti (siamo pur sempre in una struttura originariamente nata come arena per rodei), anche Billy suda parecchio, tanto che dismette a questo punto il cappello e, mentre ringrazia esaurendo il suo vocabolario tricolore, passa a “Billy The Kid” per poi continuare a tenere alto il ritmo omaggiando il grande Eddie Rabbitt (scomparso nel 1998 per un cancro ai polmoni) con una bella esecuzione di “Driving My Life Away”.
La sua band lo segue alla grande, lo accompagna e lo esalta; comincio a rendermi conto della grandezza di questi musicisti. “Anche il mio inglese è pessimo” scherza Dean “Ma tenterò di presentarvi adeguatamente la prossima canzone…” che risulta essere “Once in A While” , dedicata a Lane Frost, cowboy americano pluridecorato campione di monta del toro, morto durante un rodeo. Scherza ancora con vari “grazie” e “prego” e qui riflettori puntati su Anna Wilson, cui Billy concede il giusto spazio per eseguire la di lei canzone “Drink It Up”, parentesi di “bluesy” jazz di classe tratta dal suo album “Time Changes Everything”. Una meritata promozione del lavoro di questa bravissima artista. A seguire spazio per Monty Powell, che io conoscevo “solo” come prolifico autore di molte canzoni di Keith Urban, Chris Cagle, Diamond Rio e che a Voghera scopro anche essere il marito di Anna Wilson. Mi conquista e mi esalta mentre esegue proprio “Days Go By”, grande successo di Urban.
Billy Dean riprende poi la guida dello show con “Only Here for A Little While” e poi chiede di poter trascorrere del tempo ”da solo” con il suo pubblico: la band lascia momentaneamente il palco. Rimaniamo noi, lui e la sua chitarra acustica. Il primo momento è dedicato alla festa che “incidentalmente” noi tutti siamo lì per celebrare: il 4 luglio, la festa della Indipendenza Americana. “Oggi è un giorno molto speciale per noi americani” dice “oggi è l’Independence Day. Mio padre fu un soldato, e perse due fratelli durante la Seconda Guerra Mondiale,mentre combattevano per la nostra indipendenza. Stasera vorrei cantare una canzone molto speciale sulla nostra bandiera, che noi chiamiamo Old Glory…”. La canzone è “Wave On, Old Glory, Wave On”, che Billy esegue con molto trasporto e intensità. Una canzone che ha una storia di orgoglio e di riscatto, scritta da Wood Newton e Jim Weatherly, e che egli aveva già registrata con la Nashville Simphony Orchestra. Gli applausi non possono mancare, anche se il silenzio che in certi momenti durante un concerto sarebbe necessario qui è ancora del tutto assente: il vociare di una parte del pubblico, quasi distratta, come fosse al bancone di un bar, forse (a torto) spazientita di non avere sempre la possibilità di ballare non smette mai di essere presente in sottofondo, rovinando parecchio l’atmosfera di intimità che Billy vorrebbe creare.
Ad ogni modo egli è un artista di razza, con una gran classe ed uno stile impeccabile: per questo ringrazia la gran parte del pubblico che lo applaude e prosegue il momento acustico con la bellissima “Let Them Be Little”, al termine della quale dei bambini salgono sul palco e gli si piazzano al fianco dopo avergli consegnato un omaggio floreale. Insieme a loro, prendendoli per mano, al termine della canzone fa un inchino al pubblico (ho apprezzato molto come Billy sia sempre riuscito a esaltare ogni piccolo momento, coinvolgendo sempre il pubblico nonostante la lingua rappresenti in questi casi purtroppo un handicap quasi insormontabile durante lo show). La parentesi acustica viene chiusa con un brano che Billy Dean dice di dedicare ad un nuovo amico che ha conosciuto nel pomeriggio. La canzone è “Brotherly Love”, amore fraterno, e mi sento particolarmente emozionato mentre sotto il palco io lo guardo anche se lui non mi vede, perché quell’amico sono io. “Massimo: this is for you!” dice mentre attacca l’intro. Alla fine della conferenza stampa, infatti, io e Billy avevamo chiaccherato un pò sui suoi esordi e, a proposito del suo primo disco, ci eravamo trovati d’accordo che “Brotherly Love” fosse una delle sue canzoni più belle e lui, sorprendendomi, mi aveva detto: “Allora se tu vuoi, la inserirò in scaletta e sarà un mio piacere dedicartela!”. Quando incontri una persona speciale, questo è parte della magia.
Rientra Jim Kirby, del quale Dean sottolinea giustamente la trascorsa collaborazione con Roy Orbison: con lui, voce e piano, esegue “The Greatest Man I Never Knew”, primo singolo del suo nuovo disco “Billy Dean Sings Richard Leigh”. Una canzone che mi emoziona tantissimo, più nella versione di Billy che – con tutto il rispetto – in quella di Reba McEntire. La parte introspettiva finisce, la band ci ributta nel movimento di “Blue Suede Shoes” cantato e accompagnato al basso da Ray Barnette, omaggio al grandissimo Carl Perkins (con cui Ray ebbe la fortuna di andare in tour) e a seguire sempre Ray regala una cover di “Boot Scootin’ Boogie” di Brooks&Dunn in cui prima il piano di Jim Kirby poi la chitarra elettrica di Monty Powell si ritagliano un altro pezzo di meritata gloria. Siamo al giro di boa: Billy Dean riprende il comando con “Only The Wind” , “We Just Disagree” e la bellissima e triste “Somewhere In My Broken Heart”, canzone dell’anno nel 1992.
Il romanticismo è rotto ancora una volta dalla energia della chitarra elettrica di Monty Powell che, stuzzicato da Billy (“C’è un altro paio di canzoni che ha scritto per Keith Urban, volete sentirle?”) attacca senza por tempo in mezzo con “Sweet Thing” e “Who Wouldn’t Want To Be Me”. Monty sa decisamente anche cantare ma Billy Dean non vuole essere da meno e allora ecco tutta la band seguirlo in una coinvolgente esecuzione di “Six Days On The Road” della quale Dave Dudley non avrebbe proprio nulla da ridire: c’è spazio ormai per il virtuosismo di tutti, ognuno apprezzato e applaudito. Peccato che l’acustica dell’arena non renda completa giustizia alla destrezza e all’abilità di questi eccelsi artisti.
Il concerto si dovrebbe chiudere dopo una dimenticabile versione rockeggiante di “Thank God I’m A Country Boy” di John Denver ma all’abbandono del palco da parte di Billy fa da contraltare il pubblico che lo chiama ancora a gran voce. L’encore, sottolineato da Dean con un ispanico “Muchas Gracias!”, seguito da un “…Tanto non devo essere da nessuna parte, a breve…” consiste di una bellissima versione di “Steamroller” di James Taylor, che già aveva entusiasmato il sottoscritto nella versione che Dean ne aveva fatto in studio nel suo “Fire In The Dark” ma dal vivo resa più giocosa e allungata, in un dialogo di dieci minuti abbondanti tra strumenti e voci che esalta il singolo prima e la band poi. Fa per andarsene, Billy, ma è richiamato ancora una volta a gran voce.
Sta per passare la mezzanotte; c’è però il tempo per un secondo, ultimo encore acustico che Billy introduce con delle bellissime parole (“Grazie infinite. E’ stato un viaggio molto lungo per arrivare fin qui, voi ne avete fatto valere la pena!”) prima di attaccare le note di “If There Hadn’t Been You” (se non ci foste stati voi…), una strofa della quale recita: “Tutti i miei sogni sarebbero ancora dei sogni se non ci foste stati voi”. Chiude con l’indice delle sue mani ad indicare il pubblico al quale vuole dedicarla e che gli tributa uno scrosciante applauso finale mentre lui da l’appuntamento allo stand accanto al palco per incontrare i suoi fans e firmare autografi. Come ho detto prima, una classe ed uno stile (oltre ad un’umanità) di certo non comuni. Grazie, Billy “The Kid” Dean, per questi ricordi.
Speriamo di rivederti presto in Italia!
Massimo Annibale
Due link speciali, nel caso vogliate rivedere Billy Dean in due momenti del bellissimo show di Voghera:
http://www.youtube.com/watch?v=33SwoZS-e8o
http://www.youtube.com/watch?v=s0IJb3kDaFE