Country Night Gstaad / Conferenza stampa di Kenny Rogers – 12.9.2009
Sarà perché consapevole che i tempi in cui era il primattore e poteva permettersene i capricci sono passati; sarà perché la saggezza e le enormi soddisfazioni raccolte in carriera mitigano sempre la coscienza dell’inevitabile declino; sarà semplicemente perché è in giornata buona; fatto sta che la conferenza stampa di Kenny Rogers si rivela essere un incontro davvero piacevole con una stella che si è spogliata per un attimo della sua aura e si è offerta a noi con sincerità per una mezz’ora di botta e risposta quasi informale, a cominciare dal suo abbigliamento composto da scarpe e tuta da ginnastica. Così come all’ingresso in scena nelle serate del festival, appare un po’ stanco, dalla camminata lenta e irregolare. Ci spiegherà poi che oltre all’età lo impedisce parzialmente anche una recente operazione subita al ginocchio, tant’è che quasi non vorrebbe salire sul piccolo palco con tavolo e sedie a lui riservato in conferenza («A qualcuno importa dove mi siedo?») perché vorrebbe sistemarsi in mezzo a noi ma poi cede («Ho capito, mi volete proprio lassù…»). Occhio e voce però non si perdono mai. E’ molto paziente ed attento al minimo dettaglio, arriva quasi a discutere col suo tour manager che a fine conferenza stampa lo vuole subito portare via mentre egli desidera rimanere ancora un po’ con noi a chiacchierare e firmare autografi (le grandi star sono molto umorali, se lo possono permettere. Capiamo di essere fortunati e ne approfittiamo). Il primo argomento di cui comunque discutiamo con lui è proprio questo suo essere cantante ma anche attore. «Ho imparato che qualche volta non importa che il pubblico vada via pensando che sei il miglior cantante che ci sia, ma è importante che vada via con la certezza di essersi divertito! Così cerco di farlo ridere e se non ridono allora rido io». Il riferimento è alla difficoltà a volte di rendere qui in Svizzera una battuta accessibile anche a chi tra gli spettatori non parla bene l’inglese e qualche volta non capisce un gioco di parole o un termine usato. «E’ stata una delle cose più divertenti durante il mio show, quella di cercare di capire come far funzionare un momento comico… Che paese straordinario questo! Siete spettacolari!». E’ magico stare ad ascoltarlo parlare della sua esperienza, attorno a noi il tempo sembra fermarsi… «E’ nella mia natura cercare di capire come posso presentare ogni singola canzone senza diventare noioso, l’umorismo è il mio modo per passare, dove è possibile, da una canzone all’altra […] Una volta andai a vedere il concerto di un grandissimo artista (di cui non farò il nome) che salì sul palco, non disse una parola…né “salve” né “arrivederci”, non parlò mai tra una canzone e l’altra. Cantò solamente. La sua musica fu stupenda ma il concerto fu assolutamente noioso! Io tento con le parole di fare in modo che il mio spettacolo sia un viaggio, cercando di cantare quello che il pubblico vuole sentire….».
La scelta dei brani da inserire in scaletta, per chi ha inciso più di 65 album in carriera, può essere un problema quando vai ad esibirti all’estero. Rogers lo riconosce: «Le canzoni che ho suonato ieri sera [la conferenza stampa si svolge tra lo show del venerdì e quello del sabato, ndr] negli Stati Uniti erano dei grandi successi, ma qui non li conosceva quasi nessuno! Non che sia colpa vostra ma il fatto è che è difficile sapere cosa fare e cosa no. Così ho cercato di costruire lo show nella stessa maniera in cui li costruisco di solito e ieri sera quando nessuno cantava mi sono bloccato, ma di questo non puoi che ridere perché non puoi cambiare lo stato delle cose, è comunque un modo per divertire e divertirti». A Layla Forgiarini di Country Power Station, che prima della sua domanda gli fa i complimenti per l’esibizione della sera prima, chiede quali canzoni dello show conosceva e quali no, «così so quali fare» aggiunge sorridendo. Dopodiché, forse lasciandosi prendere dalla tentazione di capire fino a che punto conosciamo le sue canzoni, “gioca sporco” e chiede: «Cosa mi dici di “Love The World Away”? La conosceresti se la cantassi?». «Non esattamente…» risponde la collega [si tratta di una sua vecchia ma poco conosciuta ballata degli anni ’80, molto bella, ma che stranamente non è mai diventata una hit e né tantomeno Rogers ha mai inserito in qualche sua raccolta, ndr] al che egli chiosa con una battuta: «Neanche io, porca miseria». La domanda alla quale poi ovviamente risponde verte sui suoi numerosi duetti, sul segreto racchiuso nel successo di due voci che si fondono insieme in una canzone ma soprattutto, visto il successo della riedizione di “I Told You So” (scritta 20 anni fa da Randy Travis e riportata al successo un paio di anni addietro da Carrie Underwood), su quale artista country femminile moderna punterebbe se decidesse di fare incidere la cover di un suo grande successo. «Sapete, ho fatto così tanti duetti nella mia vita che è praticamente diventata una caratteristica distintiva della mia carriera: con Dolly Parton, Dottie West, Sheena Easton, Kim Carnes, Don Henley degli Eagles… Oggi ci sono davvero tanti artisti là fuori e molti di essi sanno cantare davvero! La cosa che ho imparato a riguardo dei duetti, però, è che non devi mai cominciare dal partner ma dalla canzone. Trovi una canzone che vuoi fare e ti chiedi “chi potrebbe farla bene con me?”. Quando registrai “Islands In The Stream” con Dolly [Parton, ndr], passammo in rassegna più di 25 brani insieme perché partii dal partner e non dalla canzone e perciò dovemmo trovare quella che avrebbe funzionato per noi. E’ più facile se parti dal brano e poi dici “Carrie Underwood potrebbe cantarla.. o qualcun’altra potrebbe cantarla…”. Questo è almeno come io ho costruito il mio successo per quanto riguarda i duetti. Si tende a commettere l’errore di chiedere a qualcuno di cantare in coppia con te perché quel qualcuno ti piace ma se la scelta cade su una canzone sbagliata non aiuta né te né lei. Così devi prima pensare alla canzone e poi immaginare chi potrebbe cantarla meglio». Un interessante spunto di riflessione viene offerto a Rogers dalla domanda su cosa ne pensa a riguardo della moderna country music e delle correnti che oggi la caratterizzano maggiormente: «Penso che oggi la country music sia eccitante, davvero! Io sono convinto che possa continuare ad avere successo solo nel momento in cui accetti di cambiare. Non dobbiamo dare per scontato che le radici della musica country oggi affondino per tutti nella musica di Hank Williams: alcuni per esempio hanno cominciato a fare o ad ascoltare musica country con gli Alabama, e non dobbiamo aspettarci che alle nuove generazioni piaccia necessariamente quello che è piaciuto alle vecchie. Il grande vantaggio dei giovani artisti è che hanno una grande carica che mettono nella musica, come i Lady Antebellum. Questa energia non era lì, è arrivata con loro: hanno trovato quello che piaceva loro in questa musica, si sono detti “perché non facciamo questo?” e hanno trovato il loro posto, la loro collocazione portando un sacco di nuova gente ad affezionarsi alla musica country la quale non sarebbe mai arrivata qui se non ci fossero stati loro. Gli artisti come me soffrono fino ad un certo punto di questo stato di cose, perché io ho già avuto una lunga carriera! Questo è il mio cinquantesimo anno di attività, non ho più bisogno delle cose di cui hanno bisogno i giovani artisti, mi sento appagato. Ma amo la musica country e ho desiderio che questo genere abbia sempre successo quindi sono contento che le cose stiano in questo modo». Riguardo poi al consiglio che darebbe ad una giovane band che si appresti ad affrontare il mondo della musica oggi: «Consiglio numero uno: cominciamo col dire che le band vincenti raramente stanno assieme molto a lungo! Per chiunque cominci in questo mondo poi vorrei dire che sento un sacco di giovanissimi che dopo aver assistito ad un concerto di una band dicono “ragazzi avete un sacco di successo, voglio gettarmi anche io nel business della musica” e io dico loro: se volete entrare per i soldi, non entrate! Perché la realtà è che non durerete abbastanza per fare i soldi: per farne dovete stare nel giro un sacco di tempo e pagare un sacco di dazi prima di essere in grado di colpire nel segno. Quindi se non avete la passione, se non lo fate perché è l’unica cosa che volete fare nella vita, lasciate perdere. Ma come band la cosa più importante è quella di stabilire un proprio stile: non copiate altri, siate originali. Ci metterete di più, ma quando colpirete nel segno durerà molto più a lungo».
Niente da dire: di esperienza ne ha davvero da vendere e di certo gli anni lo hanno sì incanutito ed ora sono sicuro che gli hanno anche regalato una saggezza fuori dal comune. Un giornalista tedesco gli chiede cosa rappresenta per lui la canzone “Sweet Music Man” e come mai non l’ha eseguita a Gstaad. «Sapete» dice con un luccicchìo negli occhi, confermando come sia legato in modo particolare a questo brano «”Sweet Music Man” l’ho scritta io e l’ho scritta ispirandomi a Waylong Jennings, quando sua moglie Jessie Colter mi raccontò una storia che mi colpì molto su di lui…» glissa sui particicolari della storia, che preferisce non raccontare «Comunque» continua «Oggi io non suono più la chitarra [il brano dal vivo era acustico, ndr], poiché a causa dell’età non riesco più a stringerla e pizzicarne le corde per suonarla, anche se il mondo è un posto migliore grazie a questo fatto… Ad ogni modo io amo quella canzone e mi manca il non poterla più fare durante i miei concerti. Per me è una canzone molto personale, anche se cominciai a scriverla ispirandomi ad un fatto esterno. Parlava di Waylong, ma molto di me finì con l’infilarcisi dentro e finii con il sentirla molto mia aggiungendovi i miei pensieri e le mie sensazioni e poi ha finito per essere una specie di catarsi, un’occasione per dire quello che sentivo. Vorrei poter scrivere ancora cose del genere, ma purtroppo non sono più in grado…». Ma dopo una tale carriera ed una vita personale così intensa Kenny Rogers è stanco? La domanda gli viene rivolta da un altro giornalista tedesco ed io noto con un certo disappunto che molti in sala si rivolgono a lui chiamandolo “Kenny”, cosa che io trovo alquanto irrispettosa nei confronti di un artista come lui e a maggior ragione se le domande sono poste da persone che hanno 30/40 anni meno di lui… Rogers comunque da vero professionista non batte ciglio (anche se sono certo che il pensiero deve averlo fatto anch’egli) e a domanda risponde: «Poco tempo fa mi hanno rivolto una domanda simile, ti diverte ancora essere in questo business, a fare spettacoli dal vivo? Sapete, come si dice, il matrimonio dopo un po’ di tempo non è più divertente come era all’inizio no? Però ogni volta che arrivo lì, che salgo sul palco, capisco che è lì che voglio essere, che non c’è nessun altro posto al mondo dove preferirei stare perché sono molto più a mio agio sopra un palco che altrove. Per carattere io non sono una persona a cui piace sedersi e chiacchierare con la gente, non lo faccio granché; ma quando salgo su un palco, è ad esso che sento di appartenere. Sapete, è più difficile per me adesso che ho due figli… Non posso prendere e partire quando voglio come facevo in passato: scelgo con cura dove andare, per quanto tempo, cosa fare e quando tornare a casa ma vi assicuro che ne vale la pena e quindi … Sì, adoro ancora tutto ciò!». Poi coglie l’occasione di una domanda riguardante il brano “Lucille” per rivelarci come riuscì nel 1977 a registrare questa canzone: «Questa è una delle storie sconosciute nella mondo della country music. A quel tempo il mio produttore era Larry Butler. Larry Butler era un grande giocatore d’azzardo e in quel periodo doveva a Roger Bowling [l’autore della canzone, ndr] qualcosa come 50mila dollari. Roger Bowling allora gli disse: se fai in modo che Kenny Rogers possa incidere “Lucille” scordati il debito. Ecco come quella canzone mi arrivò tra le mani! E per di più io non l’ho mai saputo! Per dieci anni ne sono stato all’oscuro, fino a quando un giorno Larry me lo ha rivelato… mi ha detto del debito che aveva… beh io dico grazie a Dio che gli doveva dei soldi!»
Gli ultimi ricordi che Kenny Rogers condivide con noi riguardano i suoi primi concerti: «Cominciai a cantare durante le scuole superiori, in un gruppo rockabilly che si chiamava The Scholars ed i cui membri – vi assicuro – non erano affatto portati per il canto! Ma quello che successe fu che cominciammo a girare di scuola in scuola, a Houston, in Texas, suonando in occasione di feste scolastiche e balli di fine anno. Molto presto cominciai ad capire che le ragazze impazziscono per i ragazzi che cantano, ecco perché rimasi nel gruppo: a quel punto era solamente una questione di sopravvivenza! Cominciai così… Poi, a poco a poco, cominciai a registrare dei dischi e forse voi non sapete che i primi dieci anni della mia carriera musicale sono stati anni di discografia jazz, perché per dieci anni ho suonato il contrabbasso in un gruppo jazz [The Bobby Doyle Trio, ndr] e in quella band facevamo davvero del jazz d’avanguardia, fu un trio fenomenale con il quale incisi anche un disco per la Columbia. Con loro girai tutti gli Stati Uniti e riscuotemmo grande successo conquistando il rispetto di ogni platea che intrattenevamo. Quando il trio si sciolse (ricordate prima quando vi ho detto che i gruppi non stanno assieme molto tempo?) diventai parte di un altro gruppo, The New Christy Minstrels, che faceva folk music, con qui rimasi per un anno e mezzo. Poi fondammo il gruppo The First Edition. E’ stato davvero un grande viaggio per me, dovunque io sia stato. Il jazz per me ha rappresentato davvero le fondamenta della mia conoscenza musicale… Sapete, non mi è mai molto piaciuta la musica folk, ma quando mi unii ai New Christy Minstrels capii davvero di cosa si trattava. Credo che uno si debba immergere in uno stile musicale per capirlo veramente, è quello che ho cercato di fare. Con The First Edition abbiamo fatto soprattutto folk-rock e quando anche questo gruppo si sciolse decisi di tornare a quelle che erano state le mie radici musicali da piccolo, quelle country, quando ascoltavo gente come Little Jimmy Dickens ed Hank Williams… Cominciai a sentirmi molto a mio agio con questo stile nel momento in cui iniziai ad incidere dischi country… “Lucile”, per l’appunto, fu il primo. Fu un bell’inizio!». La conferenza volge purtroppo al termine. «Voglio ringraziarvi ancora» dice Rogers «per avermi accolto in questo bellissimo paese e spero che il mio senso dell’umorismo non abbia offeso nessuno…» e ride ripensando e raccontando a titolo di esempio il siparietto mal riuscito nello show della sera prima durante l’esecuzione di “Lucille” (di cui potete leggere nella cronaca della serata). «Sapete, io adoro quel tipo di umorismo, e ogni volta che da spettatore vado a vedere uno spettacolo mi dico sempre “se non mi fai ridere, non mi importa quanto bravo tu possa essere” perché alla fine tutto il giudizio si lega ad un solo pensiero, che è questo: “Ragazzi, è stato proprio divertente!”. Quindi tu devi divertire». E ci lascia con una promessa: «Spero di tornare presto e quando tornerò vi prometto che avrò sviluppato un senso dell’umorismo più svizzero!».
M.A.