Country Night 2009, 11-12 settembre 2009, Gstaad (CH)
Da diversi anni la critica più ricorrente mossa al patron Marcel Bach è quella di non essere stato finora in grado di portare a Gstaad un artista country americano davvero di grido, la prima scelta che molti fan (me compreso) da tempo auspicano, di quelli che si trovano ai vertici nelle classifiche di preferenza del pubblico. La cosa sembra ancor più paradossale considerata la messe di artisti più o meno quotati che sono a disposizione nel panorama discografico (cito i primi che mi vengono in mente: Brad Paisley, George Strait, Alan Jackson, Kenny Chesney; ma anche Tim McGraw, Shania Twain, Reba, Blake Shelton, Big&Rich, Sugarland, Carrie Underwood… ed ognuno di voi ne avrà pensati altrettanti) e con i quali sarebbe davvero possibile presentare quantomeno l’edizione in grande spolvero che ormai manca da almeno un lustro.
L’ultima edizione del Country Night festival, ventunesima per la precisione, svoltasi l’11 ed il 12 settembre scorsi, ha generato a tal proposito reazioni e giudizi contrastanti a partire dall’ufficializzazione della line-up, che ha visto solo 2 dei 3 nomi in cartellone provenire dagli Stati Uniti: Kenny Rogers e i Lady Antebellum. Il terzo, la band dei Texas Lightning, di provenienza tedesca, giocava praticamente in casa. Kenny Rogers, il quale coi suoi 71 anni si trova (quantomeno anagraficamente) nella parte finale di una sia pure strepitosa carriera, non era certamente quanto di più appetibile potessero mettere sul piatto del festival country europeo più atteso; i Lady A (come vengono definiti) rappresentano il nuovo, appena affacciatisi al mondo discografico country-pop-rock e un passaggio a Gstaad in questi casi non si disdegna affatto. Insomma, un buon compromesso tra budget a disposizione e cachet da pagare. Ma andiamo per gradi.
TEXAS LIGHTNING
I Texas Lightning, affiatato quintetto nato in quel di Germania nel 2000, guidato da una pepata biondina di nome Jane Comerford (origini australiane nel sangue), hanno aperto il festival con uno show dignitoso e nel complesso non disprezzabile. Con a dire il vero un pedigree musicale piuttosto modesto (al loro attivo una vittoria alla manifestazione canora dell’Eurofestival nel 2006 grazie ad una canzone scritta dalla stessa Comerford, “No No Never”, e molti concerti dal vivo in giro per festival e sagre tra Germania Austria Danimarca Svizzera Spagna e Olanda) ed una cittadinanza texana ricevuta ad honorem, i cinque bravi musicisti (oltre a Comerford: Markus Schmidt alla chitarra elettrica e banjo, Malte Pittner voce e chitarra, Uve Frenzel al contrabbasso e voce, Olli Dittrich alla batteria e voce), ai quali si è aggiunto per l’occasione un buon pedal steel player che non avevo mai visto, si sono dati da fare per cercare di scaldare l’atmosfera con il loro tipico repertorio, fatto di pressoché ogni genere musicale rivisitato in chiave country.
La tesi sposata dai Texas Lightning è infatti quella secondo cui in ogni canzone (a prescindere dal genere cui appartiene) risieda un’anima country che essi sono in grado di portare alla luce. Durante il loro spettacolo quindi si sono sentiti passare con assoluta nonchalance da una classica e assai ben eseguita “Man Of Constant Sorrow” (tradizionale ballata rurale di inizio ‘900 di marcata matrice bluegrass) a versioni country (…) delle molto meno rurali “Like a Virgin” di Madonna e “Eye Of The Tiger” dei Survivor. Non ho avuto la sensazione che il pubblico ne fosse entusiasta, benché – come ripeto – qualità artistica e capacità musicalcanore non potessero essere messe in discussione. La loro esibizione (identica nelle due serate di venerdì e sabato, con solo un paio di cambiamenti in scaletta) è stata purtroppo per la maggior parte del tempo ispirata a brani pop e rock saccheggiati a testa bassa, durante cui ho dovuto ascoltare mediocri versioni countrycheggianti di ”Enjoy The Silence” dei Depeche Mode, “Ticket To Ride” dei Beatles, “Man In The Mirror” di Michael Jackson, “Dancing Queen” degli Abba (addirittura…), “Power Of Love” di Huey Lewis & The News, “Walk On The Wild Side” di Lou Reed per terminare l’apoteosi di questo delirio reinterpretativo con la loro versione di “Highway To Hell” degli AC/DC (che sia perché anche loro sono venuti dall’Australia?). Le parentesi di sano country hanno per fortuna reso meno amara la pillola: “Gentle On My Mind” (resa al meglio alla fine degli anni ’60 dal grande Glenn Campbell), “Eastbound And Down” di Dick Feller e Jerry Reed, “Smoke Smoke Smoke That Cigarette” dell’immenso Tex Williams e “C’est La Vie (You Never Can Tell)” del genio Chuck Berry. Non bastasse ciò, alla faccia della internazionalità, tutti i dialoghi che hanno infarcito lo show del gruppo si sono svolti in tedesco nonostante Jane Comerford parli un perfetto inglese che in conferenza stampa ha sciorinato senza problema alcuno. Quando hanno abbandonato il palco mi è sovvenuta una riflessione: qualche anno fa un gruppo del genere avrebbe guadagnato al massimo lo show gratuito della domenica.
LADY ANTEBELLUM
Il trio dei Lady Antebellum (Charles Kelley e Hillary Scott voci, Dave Haywood voce e chitarra acustica) sono stati onestamente la vera sorpresa di questa edizione 2009 ed il grande “acquisto” del festival. Sono riusciti ad entusiasmare e divertire, con un sound che ha mischiato elementi di country con parti di pop e rock serviti con gusto, professionalità e maliziosamente ben dosati per evitare quantità indigeste. Non è ovviamente mancata in conferenza stampa a provocazione relativa al fatto che – obiettivamente – il loro non sia country. Charles e Hillary hanno replicato che sì, è vero, ma anni fa si diceva la stessa cosa anche di Wayling Jennings, il quale venne fuori con uno stile tutto suo che mal si conciliava con gli stili allora in voga. «Se facessimo qualcosa di differente non saremmo noi, quindi capisco che non è ciò che si possa definire un country dei più tradizionali, ma alla maggior parte della gente piace» è stata la risposta di Charles. Poi Hillary ha aggiunto: «Questo ha a che fare anche col fatto che prima di tutto siamo anche autori delle nostre canzoni: abbiamo cominciato a scrivere insieme e ci siamo avvicinati a questo processo senza pensare di voler scrivere qualcosa in particolare: solo quello che eravamo e sentivamo, storie che avevamo vissuto ed esperienze che volevamo condividere. E credo che questa sia per me proprio la cosa più bella della country music: le storie e gli artisti davvero genuini nei confronti di loro stessi, che cantano ciò che sono. Il pubblico questo lo percepisce sempre».
In ogni caso, è vero che in sala di registrazione è facile realizzare una buona performance, è su di un palco che gli artisti dimostrano il loro vero valore e i Lady Antebellum lo hanno sicuramente provato con grande merito, dimostrando di essere vocalmente molto dotati ed equilibrati oltreché simpaticamente esuberanti e spontanei. L’ora e un quarto di concerto scivola davvero senza intoppi permettendo al trio di interpretare tutti gli undici brani del loro (per ora) unico, omonimo album con una assoluta padronanza di mezzi. L’ingresso è sulle veloci note di “Lookin’ For A Good Time” (mixata nello spettacolo di sabato sera con “You Shook Me All Night Long” degli AC/DC) e “Love’s Lookin’ Good On You”, seguite dalla ballata di “Home Is Where The Heart Is”. Parentesi rockabilly dedicata poi a Dwight Yoakam con una bella cover della sua “Fast As You” swingata alla grande anche grazie alla superlativa presenza sul palco di Jason “Slim” Gambill alla chitarra elettrica (fidato musicista nonché co-autore dei Lady A) che all’inizio, a causa delle sue lunghe trecce bionde e della penombra, avevo scambiato per un componente femminile della band! Ancora due ballate del loro disco (“Things People Say” e “All We’d Ever Need”, primo pezzo scritto insieme dai tre ragazzi) prima di gettarsi con tutto l’entusiasmo tra le effervescenti note di “Rambling Man”, grande successo degli anni ’70 degli Allman Brothers che già era stato riarrangiato in stile country dal compianto e non sufficientemente valutato Gary Stewart qualche annetto addietro.
Devo ammettere che l’arrangiamento dei Lady A non è stato male e i virtuosismi elettrici della chitarra del solito Jason Gambill non hanno fatto assolutamente rimpiangere quelli di Dickey Betts. In effetti, alla fine, il pubblico (che per tutta la canzone batte il tempo con le mani) esplode in un’ovazione davvero fragorosa a sottolineare la bontà dell’esecuzione. E’ poi il tempo di “Need You Now”, un brano tratto dal prossimo album del gruppo, ormai terminato, la cui uscita è prevista per la fine di gennaio.«Abbiamo pensato: quale migliore momento di adesso» dice Hillary introducendolo «di suonare il primo singolo del nostro nuovo disco? Spero che vi piaccia…». In effetti il pezzo è una bella slow-song, intensa e carica, in cui Kelley e Scott cantano di uno struggimento d’amore che li travolge ma che non li coinvolge reciprocamente (anche se sul palco sembrerebbe), in quanto entrambi parlano della mancanza di un partner che si trova lontano. Dave Haywood accompagna con la sola chitarra e voce, il che rende “Need You Now” ancora più apprezzabile in quanto la versione acustica esalta la bella sintonia vocale del trio. “Can’t Take My Eyes Off You”, secondo pezzo scritto dai Lady A, è preceduto dalla dedica di Hillary a tutti gli innamorati presenti in sala dopo aver ricordato che si tratta del suo pezzo preferito e aver ringraziato tutti i presenti sottolineando quale onore sia per lei esibirsi davanti alla platea della Country Night. Dopo un’altra ballata (“One Day You Will”), Hillary Charles e Dave presentano la band (oltre al già citato Gambill ci sono Dennis Edwards al basso e Matt Willingsly alla batteria) per poi buttarsi su “Slow Down Sister” e omaggiare i Doobie Brothers dei tempi migliori con “Long Train Running”.
Tra “I Run To You” (il brano per cui hanno recentemente vinto il premio della CMA come singolo dell’anno), “Long Gone” e “Love Don’t Live Here” (encore che chiude il loro spettacolo) c’è anche il tempo per un omaggio a John Mellencamp ed alla sua provocatoria “Hurt So Good” (che avevo già visto in una versione ancora più coinvolgente di Kenny Chesney in duetto con Gretchen Wilson), durante l’esecuzione della quale Hillary si sfila le scarpe – dal tacco troppo alto – per poter saltare e ballare più comodamente. In conclusione, un ottimo show per questo dotato trio, di cui sentiremo sicuramente ben parlare nel corso del 2010, a cui è secondo me solo mancata la parte di arrangiamento country che invece hanno avuto a disposizione in sala di registrazione (sono infatti mancati all’appello la pedal steel e gli strumenti ad arco). L’entusiasmo del pubblico assiepatosi sotto il palco “costringe” piacevolmente Hillary, ultima a lasciarlo, a fermarsi per qualche minuto per firmare autografi.
KENNY ROGERS
Chi non conosce, almeno nel titolo, una canzone di Kenny Rogers? La sua voce ruvida ed il suo timbro sono un marchio inconfondibile da 50 anni. Un po’ meno il suo volto, da qualche anno modificato in seguito ad un’operazione di blefaroplastica andata male. Tratti somatici a parte, per molti fan l’esibizione a Gstaad di Mr. Rogers (la terza in Svizzera fino ad ora) rappresentava con tutta probabilità l’ultima occasione di vedere dal vivo una vera e propria star, non solo country, presente da mezzo secolo sulla scena musicale internazionale. Le sue cifre sono da capogiro: 65 album all’attivo, più di 100 milioni di dischi venduti, ottavo artista nella classifica di ogni tempo in fatto di vendite. Prima di lui fa il suo ingresso sul proscenio la sontuosa band di 8 straordinari elementi che lo segue ormai da anni dal vivo: Gene Sisk al pianoforte, Warren Hartman alle tastiere, Chuck Jacobs al basso, Amber Randall al violino, Steve Glassmeyer alle tastiere e chitarra elettrica (segue Kenny da più di 30 anni!), Lynn Hammann alla batteria, Randy Dorman alle chitarre e Brian Franklin alla chitarra elettrica.
I musicisti sono affiatatissimi ed il tour è un rodato spettacolo che ormai Rogers porta in giro per Stati Uniti ed Europa da circa 3 anni (anche la scenografia è la medesima). Me ne sono reso conto specialmente alla fine della esibizione, quando ho riconosciuto molte scenette e battute scambiate tra lui ed il pubblico come le medesime di un suo concerto americano del 2006 che avevo avuto occasione di vedere tempo addietro (lo stesso Rogers ha ammesso in conferenza stampa che esse sono parte di una “routine” appositamente preparata). Ciononostante, la naturalezza con cui le rende ogni volta è da premio Oscar. Diamine, in fondo lui è Kenny Rogers: 50 anni di esperienza vorranno pur dire qualcosa no? In jeans e camicia (bianca la prima sera, blu la seconda) fa il suo ingresso sulle note di “Love Or Something Like That” alla quale segue “It’s a Beautiful Life”, le uniche canzoni durante le quali è concesso al pubblico di scattare fotografie e quindi assieparsi sotto al palco. Dopo l’up-tempo “If You Want To Find Love” ecco il primo tuffo negli anni ’80 con un medley di canzoni d’amore che include “Through The Years”, “You Decorated My Life” e “She Believes In Me” della quale Rogers dice «di tutte le mie ballate questa è la mia preferita». Il primo dei suoi siparietti comici arriva con “Ruby Don’t Take Your Love To Town” in cui egli vuole condividere il ritornello con l’auditorio con esiti per la verità poco felici in quanto sono in pochi a seguirlo, o almeno a farsi sentire; senza contare poi che la chiusa (“…For God’s Sake Turn Around”) viene pressoché totalmente sbagliata, tanto che Rogers esclama «Non importa… Lo farò da me!…» e poi commenta ridendo: «Sapete, l’hanno cantata meglio a Hong Kong!». Il momento seguente è più introspettivo; Rogers lo introduce parlando della sua recente e per certi versi inattesa paternità (per chi non lo sapesse, 5 anni fa è diventato papà di Justin e Jordan, due gemelli avuti dall’ultima di cinque mogli, Wanda, una stupenda mora di 29 anni più giovane di lui, sposata nel 1997 ma conosciuta sei anni prima nel ristorante in cui lei lavorava come cameriera per pagarsi gli studi e lui era andato per un appuntamento galante, ovviamente con un’altra donna). La canzone è un brano del 1997 tratto dal suo album “Across My Heart” che si intitola “To Me” e che l’artista dedica a moglie e figli mentre sui megaschermi laterali al palco partono immagini tratte dall’album personale di Rogers, che ritraggono la famiglia in diversi momenti della loro vita, alcune dolci altre più tenere e divertenti che in me generano sentimenti di dolcezza e inducono al sorriso mentre il pubblico svizzero si lascia andare in risate, a volte anche fragorose, che in tutta onestà mi sembrano reazione esagerata e un po’ fuori luogo.
Non così sembra per Rogers, che a seguire lascia un meritato spazio alla sua giovane violista Amber Randall, lungo capello biondo e vero talento naturale («Potete suonare il violino in un sacco di modi. Ma vi do la mia parola che non lo sentirete suonare mai meglio di così…»). Dopo l’assolo partono le note di una briosa “The Coward Of The County” molto ben allegramente arrangiata. Poi, proprio partendo da quest’ultimo brano, «Sapete» dice «riguardandomi indietro e prendendo in considerazione canzoni come “Reuben James”, “Ruby, Don’t Take Your Love To Town”, “Coward of The Country”, “Daytime Friends”, “The Gambler” e “Lucille” mi rendo conto che negli anni ho avuto una carriera incredibile cantando di famiglie disastrate!». Tra le risate del pubblico arriva “Buy Me A Rose”, un suo successo di una decina di anni fa. «Qualche anno fa ho trovato questa canzone che dimostra una volta per tutte» afferma nel presentarcela «che gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere! Qui si parla di un uomo che prova con tutte le sue forze a fare colpo sulla sua donna, il problema è che si trova su una frequenza diversa da lei…» e poi arriva l’altra storia di famiglia disastrata con “Rueben James”. «Ok, devo essere sincero» chiacchera poi col pubblico «almeno alcuni di voi conoscevano “Ruby Don’t Take Your Love To Town”. Loro no» dice indicando un gruppo nel settore di destra che si diverte bonariamente a schernire fin dall’inizio dello show «non la conoscevano affatto! Ma qualcuno di voi ricorda che io facevo parte di un gruppo che si chiamava “The First Edition”?» fa il segno di contare e poi esclama teatralmente sconsolato: «Dodici persone! Ok…!». Risate. Rogers dimostra sicuramente tutte le sue doti di grande intrattenitore e nasconde molto bene le difficoltà dovute alla lingua.
Questo siparietto è strumentale alla presentazione della canzone che segue, “Just Dropped In (To See What Condition My Condition Was In)”, il più famoso successo del suo ex gruppo, che egli canta mentre sui megaschermi partono come in un flashback le immagini in bianco e nero del video di quella canzone, datata 1967. Sembra quasi un playback, tanto i labbiali del video corrispondono all’esecuzione dal vivo, ma diamine non lo è affatto! Kenny Rogers questa canzone la canta oggi ancora come allora! Al termine del lungo applauso che segue dice: «C’è una cosa su cui stasera possiamo essere tutti d’accordo: non scrivono più canzoni così oggigiorno, vero?». Un altro applauso lo rincuora a riguardo («Grazie a Dio!»). Torna l’intrattenitore che è in lui: «Quando avevo 12 anni e vivevo in una fattoria in Texas ho avuto un sogno: che un giorno sarei venuto a Gstaad in Svizzera» lo interrompe la reazione di divertita incredulità del pubblico «Si, questo è il modo in cui voi reagivate nel mio sogno!» e tra le risate della platea canta “Bo Diddley”, un rock’n’roll portato al successo dal chitarrista ed autore di colore Ellas Otha Bates (che nel ’55 arrivò numero uno nella classifica R&B). Segue il duetto preferito di Rogers, “We’ve Got Tonight”, e poi con la scusa di offrire all’auditorio una ulteriore prova per redimersi («…anche se non siete pronti…») annuncia una canzone di amicizia, “Have A Little Faith In Me”, brano di impostazione gospel con venature blues scritto da John Hyatt nel 1987 – ancora dal suo album “Across My Heart” – e che una miriade di artisti ha fatto proprio nel corso degli anni (Joe Cocker, Mandy Moore, Delbert McClinton, Jo-El Sonnier e non ultima la pop star Jewel, la cui versione fu inserita nel film del 1996 “Phenomenon” con John Travolta). «Oh a proposito, in mezzo c’è una parte anche per voi da cantare!» dice Rogers e poi, fingendo profonda preoccupazione dopo il pessimo risultato ottenuto tentando di far cantare il pubblico con “Ruby Don’t Take Your Love To Town” aggiunge ridendo «…O mio dio….. E per favore, non cantate fino a quando non l’avete imparata! Specialmente da quella parte» indicando il solito gruppo sulla destra…
L’atmosfera è ormai ben scaldata ma ci si avvia purtroppo verso la fine del concerto. Sui grandi schermi laterali scorrono le immagini della serie tv degli anni ’80 “The Gambler” (sconosciuta purtroppo in Italia) in cui Rogers era il protagonista, mentre canta l’omonima canzone, scritta da quel talento di Don Schlitz, altro suo grande cavallo di battaglia. Il pubblico accompagna scandendo il ritmo con il battere delle mani (ancora, noto che sono in pochi a saperne almeno il ritornello). Ora è la volta di “Lucille” e anche qui Rogers spererebbe che tutto il pubblico cantasse al suo posto il refrain. Ma quando porge idealmente il microfono alla platea non si levano a dire il vero troppe voci a cantare. Rogers ride e mentre sta per attaccare il secondo verso del brano dice «Okay… Perché adesso non vi riposate per un minuto? Posso solo immaginare quanto faticoso possa essere stato tutto questo per voi! E, per carità, smettete di oscillare a destra e sinistra!» (la platea ha in effetti iniziato a ondeggiare a ritmo) «Sto scherzando, adoro vedervi dondolare» precisa quando si rende conto che il pubblico lo ha preso sul serio e si è improvvisamente bloccato «Ok dondolerò anche io!» e
termina la canzone ballonzolando a destra e a sinistra. «Da 30 anni, letteralmente, da quando registrai “Lucille”» si racconta ancora «ogni sera, quando finisco di cantare questa canzone, appoggio il microfono sullo sgabello, mi giro, saluto, vado oltre il sipario e fingo che non tornerò indietro… Beh, sono stanco di fare questa sceneggiata… Se siete onesti con voi stessi ammetterete che è una cosa piuttosto stupida. Come se non sapeste che io in realtà tornerò sul palco… E sapete? Più divento vecchio più tendo a risparmiarmi quei preziosi passi verso il sipario… Recentemente ho avuto delle visioni di me stesso tra qualche anno, su una sedia a rotelle, mentre sto terminando di cantare “Lucille” e qualcuno spinge direttamente la sedia giù dal palco dietro al sipario…». Applausi e risate interrotti solo dalla presentazione dei componenti della sua eccezionale band, che poi attacca le note di “Lady” (grande hit scritta da Lionel Richie) e va al gran finale con “Islands In The Stream”. Non se ne avrebbe mai abbastanza con un artista come Kenny Rogers, ma lo spettacolo finisce in un tripudio di applausi e fischi di approvazione.
A consuntivo devo dire che, nonostante qualche perplessità iniziale, delusione vera non c’è stata e anche questa trasferta elvetica ha concesso momenti significativi, accanto ad una qualità musicale che rimane sempre ed indubbiamente al di sopra dello standard. Riguardo Kenny Rogers, per come la vedo io, in questa sua trasferta ha preferito andare sul sicuro, puntando sui suoi classici e bilanciando country e pop. Scelta teoricamente “facile” (anche se poi abbiamo constatato che tanto felice non è stata) con cui ha tratto dal suo repertorio il materiale che riteneva più adatto a questo pubblico, sulla base di uno studio che qualcuno ha compiuto per lui per cercare di stabilire quali fossero le sue canzoni più conosciute in Svizzera. Ha tralasciato il suo repertorio più recente: nulla del suo ultimo lavoro, “Water & Bridges” (2006), per esempio, è stato inserito pur essendo presenti sul quel disco autentiche gemme come “The Last Ten Years”, “I Can’t Unlove You”, la stessa “Water & Bridges” e “My Petition”. Ho avuto la sensazione che, nonostante non abbia più addosso la pressione del successo, questa volta abbia preferito non correre rischi ed evitare il suo repertorio più esoterico (come l’ho definito in conferenza stampa quando gliel’ho fatto notare: Roger ha negato che fosse questo il motivo ma non mi ha convinto del tutto). Nessuno però può dubitare sul fatto che Kenny Rogers sia una delle più grandi e complete “personalità” musicali (showman, cantante, musicista, autore, attore) mai passate attraverso la storia di questi ultimi due secoli; colui che ha avuto il più duraturo e consistente successo come artista e come intrattenitore nell’industria discografica. Di lui Jim Mazza, attuale presidente della Dreamcatcher (la nuova casa discografica di Rogers) ed ex presidente della EMI-UA dal 1971 all’87, ebbe una volta a dire: «C’ è solo un Kenny Rogers». Non potrei trovare espressione più sintetica.
L’appuntamento per il Country Night festival edizione 2010 è per i prossimi 10 e 11 settembre.
M.A.
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APPRFONDIMENTI / 3 – Kenny Rogers canta “Love Or Something Like That” > clicca qui