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Festival Country Rendez-Vous di Craponne Sur Arzon 2011

Posted by CountryStateLine on 13th novembre 2011 in Home (News)

Ospito volentieri l’amico, già organizzatore di eventi musicali country nell’emiliano e grande esperto della nostra musica preferita (nonché fratello rossonero, ma questo è un altro discorso…) Roberto Campovecchi che, accompagnato da parte della sua famiglia, lo scorso luglio è stato in terra francese, a Craponne Sur Arzon, a vedere il festival “Country Rendez-Vous” che avevo presentato in un mio articolo (vedi) lo scorso giugno. Ne è scaturito questo resoconto per CountryStateline del quale lo ringrazio. Buona lettura!
M.A.

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FESTIVAL COUNTRY RENDEZ-VOUS 2011: IO C’ERO
di Roberto Campovecchi

Tre anni senza il festival di Craponne è un periodo troppo lungo da sopportare per chi ha provato almeno una volta l’emozione di parteciparvi. Dal 2008 al 2010 sono stato impegnato (e la mia signora più di me) in altre faccende, prima con la nascita del mio primo figlio Denny e poi di suo fratello Sonny (entrambi grandi appassionati di musica Country, Bluegrass e Rock’n’Roll), il che ci ha reso impossibile per un po’ andare in giro per il mondo ad ascoltare musica dal vivo. Per fortuna il freddo quasi polare che solitamente accompagna le notti del Festival Country Rendez-Vous di Craponne quest’anno si concede una pausa sabbatica.
Quando il sole scende fa comunque freddo ma vestiti adeguatamente lo si sopporta. Il pomeriggio di sabato ma soprattutto di domenica il sole scalda e abbronza; non ricordo un tempo più clemente di questo da quando vengo a Craponne.
Venerdì ci è impossibile partecipare alla prima serata del festival. Ci diranno poi i nostri amici italiani già presenti dal primo giorno che è stata una serata bellissima. Peccato non esserci stati ma ci rifaremo ampiamente nel corso delle due serate successive.
La seconda (prima per noi) serata del festival si apre con la band francese dei Truck Stop Rules. Esibizione interessante, la loro. Non sembrano giovanissimi e già dalle prime note è evidente, mi sentirei di scommettere, che arrivano al country dopo una passato nel rock. Base ritmica tosta e sicura: con un basso e una batteria così diventa tutto più facile per il resto della band. Niente cali di ritmo o di tensione con l’onnipresente chitarra di Sebastien Douzal a condurre le danze. La bella giornata di sole permette ai Truck Stop Rules di esibirsi davanti ad una platea già abbondantemente affollata. Se lo sono meritati, veramente una Band interessante che spero di rivedere presto.
L’arena del festival è ormai gremitissima e io e mia moglie a turno abbiamo il nostro bel daffare nell’evitare che Denny, venuto con noi e per il quale il festival rappresenta il suo primo vero esame, si perda tra la folla. Non riesco a stare concentratissimo sui concerti e cercherò di ricordare il più possibile di quello che ho visto e che ho sentito.
Per la seconda esibizione della serata, che mi ha veramente scaldato il cuore, arriva il primo artista a stelle e strisce anche se la faccia e il nome nascondono, neanche tanto bene, origini messicane. Basterebbe dire country ma temo che molti non capirebbero. Infatti al giorno d’oggi la parola country viene male interpretata e allora per chiarire le idee a chi le ha confuse, consiglio di ascoltare un concerto o un cd di Bobby Flores: tutto quello che ascolterete dopo, se assomiglia a quello che suona lui, allora è country. Altrimenti no! Cantante e violinista di grandissimo carisma, votato nel 2004 quale miglior musicista Western Swing, ci regala un’ora di purissima Country & Western Music. Faccia sempre sorridente e giacca da rhinestone cowboy, Bobby Flores con la sua musica ci porta a fare un viaggio across the border, lungo i confini (musicali), scorrazzando però più spesso dalla parte americana che da quella messicana. Sapevo che avremmo assistito ad una bellissima esibizione, avevo già potuto ascoltare il suo violino nei bellissimi dischi di Pauline Reese ma non sospettavo si portasse al seguito una band del genere, vale a dire tutti gli strumenti della tradizione country e addirittura, ad un certo punto, tre violini insieme sul palco. Una bellissima esibizione, ma forse qualche covers in meno e qualche pezzo originale in più non avrebbero guastato.
La band che segue lo show di Bobby Flores, i Flynnville Train, sono quello che resta di un rock sudista classico adattato alla platea country. Chi ama e segue il rock del vecchio sud, come il sottoscritto, ha apprezzato molto il loro spettacolo qui a Craponne. Questi quattro brutti ceffi del Kentucky che probabilmente si lavano i capelli con il FrontLine, non si presentano però nella tipica formazione rock sudista (cioè con tre chitarre) ma il casino che fanno anche solo con due è comunque sufficiente. Capitanati dai fratelli Bryan e Brent Flynn, i ragazzi propongono uno show con tutti gli ingredienti del genere: grandi schitarrate, voci roche, buone armonie vocali e un pizzico di boogie. I Lynyrd Skynyrd e i Molly Hatchet erano altra cosa ma l’inizio è promettente e forse un giorno troveremo pure loro nell’Olimpo del rock sudista.
La star della serata è indubbiamente Rhonda Vincent che naturalmente non tradisce le aspettative. Già a Craponne dieci anni fa, Rhonda è stata fortemente voluta di nuovo qui dall’organizzazione del festival visto il grandioso successo ottenuto in quella sua prima apparizione al Rendez-Vous. Della formazione di dieci anni fa resta il solo Mickey Harris al basso, che comunque era stato ingaggiato solo per quel tour europeo e non faceva parte ufficialmente della band di Rhonda, the Rage (allora militava nelle fila dei Sidewinders di Sally Jones). Band completamente nuova, quindi, ma spettacolo pirotecnico come allora. Voce strepitosa (non a caso Dolly Parton la invita spesso a cantare nei suoi dischi), tecnica sopraffina, band incredibile, energia da vendere e pure una buona dose di comicità grazie alla complicità del violinista Hunter Berry, suo bersaglio preferito nonché marito di sua figlia Sally. Il tempo a disposizione di Rhonda è purtroppo limitato e non poteva essere altrimenti in un festival ma riesce però a raccogliere nel breve tempo a sua disposizione le più belle canzoni del suo repertorio. Solo poche gemme rimangono fuori, come ad esempio “Farewell Party” che solitamente fa parte dei suoi spettacoli ed è cantata magistralmente da Mickey Harris. Tantissimi sono i ringraziamenti e le canzoni dedicate a Martha White, la famosa azienda produttrice di farina e preparati per dolci da tantissimi anni sponsor ufficiale di Rhonda. I fan della musica bluegrass sono ovviamente la minoranza e quindi il picco di entusiasmo viene raggiunto quando Rhonda ci propone una grandiosa versione di un vecchio successo di Dolly Parton, “Jolene”, pezzo conosciutissimo non solo tra i fans della musica country. Il tempo sembra volare e quando Rhonda lascia il palco pare siano passati solo pochi minuti dall’inizio dello show, che comunque deve andare avanti. Per noi però la serata si chiude qui perché Denny ha dato tutto e non ce la fa più: se lo vogliamo in forma il giorno dopo dobbiamo per forza portarlo a dormire.
La serata verrà chiusa da Lisa Haley. Artista a me sconosciuta che avrei visto volentieri. Peccato, sarà per un’altra volta.
La serata conclusiva inizia come al solito prima rispetto alle due serate precedenti per permettere poi a chi lavora il lunedi di non rientrare troppo tardi a casa. Sotto il sole caldissimo del primo pomeriggio ci facciamo una bella sudata godendoci lo spettacolo affascinante dei Ranch House Favorites. Non li conoscevo, ma ero sicurissimo che mi sarebbero piaciuti. Mi intrigava già parecchio il nome e poi il fatto che venissero dall’Olanda era come una garanzia. Nei Paesi Bassi c’è molto interesse intorno al western swing e all’hillbilly; tutte le band olandesi che ho conosciuto sono molto interessanti e il gruppo sceso quest’anno a Craponne non fa eccezione. Formazione essenziale e strumenti della tradizione western, divise impeccabili e una song list da sballo. Il loro repertorio spazia naturalmente a cavallo tra la fine degli anni ‘40 e la fine dei ‘50 con tante cover (forse tutte) ma una più bella dell’altra e mi fa enormemente piacere ascoltare pezzi che solitamente nessuno propone, pezzi poco conosciuti come ad esempio “Smoke! Smoke! Smoke!” di Tex Williams riproposta in versione molto più veloce dell’originale oppure come “Shine, Shave and Shower” di Lefty Frizzell.
Se la memoria non mi inganna quest’anno, per la prima volta, abbiamo assistito per la prima volta a due concerti bluegrass di band americane. Speriamo che la tendenza sia questa anche in futuro. Dopo la straordinaria esibizione di Rhonda Vincent la sera precedente, tocca ora alla californiana Kathy Kallick. Confesso di non conoscere tantissimo la musica di Kathy: avevo ascoltato qualcosa di lei che me la faceva ricordare come una cantante bluegrass ma tendente al folk mentre invece qui a Craponne ci regala un’oretta di purissimo bluegrass. Band molto buona con la giovane Annie Staninec spesso protagonista col suo velocissimo violino, il navigato Greg Booth al dobro, suo figlio Dan al basso e Tom Bekeny al mandolino. Ottima intrattenitrice, Kathy si sforza pure di parlare un poco di francese appreso pochi minuti prima dello show. Buona voce, ottima band dove tutti cantano, discreto repertorio: ce n’è a sufficienza per dare un giudizio positivo al suo spettacolo del quale ricordo volentieri una originale versione di “Cotton-Eyed Joe”, canzone purtroppo conosciuta dalle masse solo per le orrende versioni uscite negli ultimi anni.
Tocca poi a Kyle Park, artista a me sconosciuto ma che mi sorprenderà piacevolmente. Temevo, lette le presentazioni, di trovarmi davanti ad un artista che predilige suoni duri del rock alternativo, tanto di moda dalle sue parti. Invece Kyle sfodera una bellissima voce, limpida e potente, country a tutti gli effetti. Le canzoni spaziano dal miglior country al miglior rock (naturalmente mi riferisco al classic rock), per poi sconfinare a tratti pure nel southern rock avvalendosi dell’aiuto non indifferente di una grande band.
Veniamo così alla stella dell’edizione 2011 del festival: Tanya Tucker. Indubbiamente una delle stelle più luminose della storia recente della country music, Tanya Tucker si è presentata a Craponne in grande forma malgrado la sua non più giovane età. Sempre a suo agio su un palco, a tratti provocante, non sta ferma un attimo ma quel che colpisce è la sua voce. Non è certo la voce più bella in circolazione, è una voce particolare che piace o non piace (un po’ come quella di Willie Nelson) ma la cosa incredibile è che è rimasta la stessa identica voce di quando appena tredicenne iniziava la sua straordinaria carriera. Gli anni che passano inesorabilmente anche per lei e la vita disordinata di tanti anni fa non hanno intaccato minimamente le sue corde vocali. E’ un piacere ascoltare una mezz’oretta dei suoi grandi successi con la stessa voce che si ascoltava allora sui dischi. Successi che vanno dalla sua prima grande hit, “Delta Dawn”, alla haggardiana “Ramblin’ Fever”, da “Strong Enough To Bend” a “San Antonio Stroll”. E’ una grandissima emozione poter ascoltare tutti questi successi dal vivo ma dispiace veder utilizzare una ventina di minuti del già poco tempo a disposizione per presentare le sue figlie alla platea. La più grande, che resterà sul palco per alcune canzoni, ricorda molto la madre nei suoi atteggiamenti provocanti e non sfigura come cantante; ma la piccolina a cui viene ‘imposto’ di cantare “Take Me Home Country Roads” non pare gradire il ruolo di protagonista. Per tutto il tempo della canzone ha la madre a fianco che la invita a sciogliersi ma lei è molto tesa e pare non veder l’ora che tutto sia finito. Avrei preferito sentire, piuttosto, altri 10/15 minuti di mamma Tanya visto che comunque ha lasciato fuori alcuni brani del suo repertorio che a me piacciono un sacco, come ad esempio “Two Sparrows In A Hurricane” o “Soon”.
Calato il sipario sul concerto di Tanya Tucker, il palco viene sistemato per l’ultimo concerto dell’edizione 2011 del festival, i Los Pacaminos. Saggiamente gli organizzatori del Festival piazzano sempre la star della serata al penultimo posto della line-up perché è usanza diffusa iniziare a far su armi e bagagli durante l’ultimo concerto in programma ascoltando distrattamente gran parte di quest’ultimo mentre ci si avvicina ai parcheggi. Denny ormai è distrutto da una due giorni così intensa e pure noi grandi pensando al viaggio e dovendo salutare un sacco di gente prima che se ne vada, decidiamo di incamminarci verso l’uscita dopo pochi brani dei Los Pacaminos, band britannica capitanata dal sempreverde Paul Young, proprio quel Paul Young universalmente conosciuto alcuni decenni fa per i suoi grandissimi successi pop. Il repertorio è quanto di meglio ci si possa aspettare da una band country ma purtroppo trattasi di una cover band. Tutti brani conosciutissimi e poche sorprese per uno show che inizia e termina senza infamia né lode. Ascoltiamo quasi tutto il loro concerto distrattamente mentre salutiamo gli amici ma anche se non li vedo presto molta attenzione a quello che sento. Come dicevo, tutti i loro brani sono cover, ma cover eseguite alla grande. Due cose non mi sono piaciute: la prima è la versione forse meno bella tra tutte quelle in circolazione del periodo d’oro di Elvis Presley, “Little Sister”. Credo che loro abbiano riproposto la versione di Ry Cooder. La seconda è il fatto che i membri della band si sono equamente divisi il ruolo di cantante solista, mentre a mio avviso andava dato più spazio a Paul Young, che a Craponne ha dimostrato di possedere ancora una bellissima voce. I Pacaminos sembrano divertirsi sul palco e la mia impressione è che la band sia nata per passare un po’ di tempo tra amici senza nessuna pretesa di far carriera.
Nei giorni che precedevano il festival avevo sentito parlare di un progetto per coprire l’area dove esso si svolge. Probabilmente, viste le dimensioni di questa area, si provvederà a coprire una parte e non tutta e con ogni probabilità l’area coperta avrà posti numerati che costeranno di più di quelli esposti alle intemperie. Solo così si potrà giustificare una spesa enorme.
A mio avviso il Festival di Craponne affascina così tanto proprio perché assomiglia molto ai festival americani e sono convinto che se lo copriranno perderà una parte del suo fascino. Magari i soldi della copertura potrebbero essere utilizzati per portare qualche stella in più al Festival. Arrivederci al 2012.
FOTO DELL’ARTICOLO: ROBERTO CAMPOVECCHI