Intervista a Phil Vassar – La Cantina di Lentate (MI) – 2 febbraio 2010
Dal 26 gennaio al 1 febbraio 2010 Phil Vassar, autore e cantante tra i più prolifici, eclettici e talentuosi di Nashville, aveva in programma un breve tour tra Inghilterra, Irlanda e Germania. Non erano previste tappe italiane; ma all’ultimo minuto gli sforzi congiunti dello stesso Vassar, entusiasta all’idea di venire a “tastare” il movimento country in terra italiana, di Country Music Network, di Country Power Station (la prima web-radio italiana tutta di musica country) e del locale “La Cantina” di Lentate sul Seveso, alle porte di Milano, ha dato il risultato sperato di riuscire ad organizzare una bellissima e quasi estemporanea “unplugged session” di questo fenomenale artista, vero animale di razza da palcoscenico, che – per chi non lo sapesse – ha scritto canzoni per una miriade di artisti country, da Jo Dee Messina (“Bye Bye”, “I’m Alright”) a Tim McGraw (“For a Little While”, “My Next Thirty Years”); da Kenny Chesney (“Boston”, “For The First Time”) a Neal McCoy (“Ain’t Nothin’ Like It” e “I Was”); da Mindy McReady (“Don’t Speak”) ai Sons of The Desert (“Drive Away”); da Collin Raye (“Little Red Rodeo”) ad Alan Jackson (“Right On The Money”). E la lista potrebbe continuare…
L’evento si è svolto appunto a La Cantina di Lentate sul Seveso, un locale in cui il country è già regolarmente ospitato ogni settimana con musica diffusa e ballo. La serata è stata quella di martedì 2 febbraio, inserita a cavallo tra l’ultima tappa europea di Phil Vassar (a Untermeitingen, in Germania) e la sua ripartenza per gli Stati Uniti, avvenuta la mattina di mercoledì 3. Davvero un piccolo miracolo. Ho avuto il piacere e l’onore di essere stato invitato alla serata e di avere incontrato Phil Vassar qualche ora prima che salisse sul piccolo palco de La Cantina per una intervista esclusiva per i lettori di Countrystateline.com che potete leggere di seguito.
ATTENZIONE
Troverete una mia recensione del concerto sul numero 168 del mensile JAM in edicola i primi giorni di marzo. Buona lettura!
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Phil, tu hai affermato di non aver mai previsto di diventare un autore di canzoni. Ciononostante hai però iniziato la tua carriera come tale, principalmente scrivendo canzoni per artisti country di successo come Tim McGraw, Jo Dee Messina, Alan Jackson… Poi, alla fine degli anni ’90, hai cominciato a pensare che forse scrivere e suonare il tuo stesso materiale era la nuova strada.
Esattamente.
Cosa ti ha portato a questo passo ulteriore? Voglio dire, è stato solo un processo naturale?
Lo è stato per me, perché scrivere è stata la prima cosa che ho fatto: ma io sono sempre stato un interprete. Ho suonato per anni nei clubs e nei piano bar o dovunque potessi; nello stesso tempo lavoravo al mio materiale d’autore. Ma ho sempre voluto essere un cantante, ed un interprete. Ho avuto l’occasione di diventarlo, ma è stato assolutamente un caso che quelle persone abbiano inciso prima le mie canzoni. Ovvio, sono felice che lo abbiano fatto, perché quelle canzoni hanno dato loro un grande successo, ma non avevo idea che questo sarebbe stato il modo in cui io avrei realizzato quello che volevo fare. Suppongo sia stata una sorta di porta di servizio tramite cui io sono entrato in questo business. Ma è stato un bene. Ha funzionato bene per me. Sai, io ho sempre desiderato “spiare” un cantante che fosse anche autore. Tutti i miei artisti preferiti sono sia cantanti che autori di canzoni: Elton John, Billy Joel, tutti quelli che sanno suonare il pianoforte in generale… tipo Jackson Brown… ce ne sono così tanti di cui ti potrei parlare…
Quindi tu volevi fare entrambe le cose: essere un cantante ma anche autore di tuo.
Penso proprio di si. Ho sempre sognato di essere così. Tipo i Beatles, che hanno scritto tutte le loro canzoni. Semplicemente sono sempre stato un grande fan degli artisti che si scrivevano le loro canzoni.
Tempo addietro sei stato co-proprietario di “Nathan’s”, un ristorante di Nashville. Lo sei ancora?
No. L’ho venduto quasi dieci anni fa. Ne sono stato co-proprietario per circa cinque-sei anni, ci suonavo di sera e ci veniva molta gente; era un club molto carino in cui andare. Quando incisi il mio primo singolo, “Carlene”, lo vendetti.
Ma tu cominciasti a “testare” il tuo materiale d’autore proprio sul palco di quel ristorante, vero?
Si, è proprio così. Lì suonai un sacco di mie canzoni, che alla fine sono diventate grandi successi. Io sapevo sempre se era del buon materiale perché quando suonavo dal vivo lì dentro, sentivo la gente reagire alla mia musica. Anche se la mia casa discografica continuava a dire che quelle canzoni a loro non piacevano, anzi alcuni le odiavano proprio. Però io sapevo che quelle canzoni erano meglio di quanto loro dicevano fossero… (ride) … e alla fine gliel’ho dimostrato!
Parliamo proprio di etichette discografiche: i tuoi inizi furono con l’Arista, che era una major, dopodiché migrasti verso un’etichetta indipendente…
Beh si trattava della Universal South, non poi così indipendente… Certo, magari più piccola, questo sì. Ma ora essa stessa non lo è più: anche Toby Keith e Trace Adkins oggi ne fanno parte… Quindi in effetti oggi tutto a un tratto è diventata più grande. Non so cosa stia succedendo… (ride) … Lungo il percorso qualcosa è cambiato…
Ma secondo te cosa c’è dietro alla necessità di un artista di traslocare da una major discografica ad una etichetta più piccola?
Penso che molte volte le grandi case discografiche vogliano controllare troppo le cose. Tendono ad essere piene di griglie di controllo, ti dicono quale tipo di canzoni devi incidere e fanno tutto solo per onere di contratto, su commissione, e non con il cuore, non con l’anima. Quindi penso che per me fosse solo giunto il tempo di andare… Volevo solo registrare i “miei” dischi. Ora posso scrivere le mie canzoni e produrre i miei dischi da solo; non ho bisogno di qualcuno che mi aiuti in questo, che mi dica cosa fare e cosa non fare. Fino a che con una casa discografica hai questa libertà è la condizione migliore. Io ho avuto l’opportunità e la libertà di fare questo.
Parliamo del tuo ultimo cd, “Traveling Circus”: il pianoforte è molto presente al suo interno, per così dire. So che ti piace molto questo strumento musicale. Tu pensi che il piano può andare d’accordo con la musica country?
Beh, sai… in passato Ronnie Milsap lo fece per anni; Charlie Rich fu un grande artista con il piano; Jerry Lee Lewis anche… e tanta altra gente come loro…
Jerry Lee Lewis ci saltava anche, sul pianoforte…!
(ride) … Anche io! Non su quello che uso stasera qui alla Cantina, perché è troppo piccolo, non ho potuto portarmi dietro il mio pianoforte a coda… Però, sì credo che le due cose possano andare d’accordo! Sai, quando pensi alla country music pensi alla chitarra…
E ai cappelli da cowboy…
Esatto… E non è necessariamente così. Vince Gill ha dimostrato il contrario e lui non indossa un cappello da cowboy, molta gente non lo indossa; o lo indossa solo per sembrare country, ma non lo è affatto! (ride) Non capisco… In ogni caso io personalmente non sono un cowboy, quindi non indosso cappelli da cowboy. A meno che non vada a cavallo, quando sono a casa nella mia fattoria!
La prossima domanda è una domanda che mi piace molto fare ad ogni artista che incontro quando viene a suonare dal vivo da questa parte dell’oceano: quali sono le principali differenze tra il pubblico americano ed il pubblico europeo? A parte la diversa lingua ovviamente…
Penso che il pubblico europeo sia più appassionato rispetto al pubblico americano.
Lo pensi sul serio?
Si, davvero! Assolutamente!
Ma il pubblico americano, per esempio, lo vedo sempre urlare molto…
Si, è vero, lo fanno. Non dico che non lo facciano, ma io parlo di passione generica per la musica. Loro [il pubblico europeo] studiano di più la musica, la conoscono istintivamente meglio, capiscono le canzoni, vogliono capire di cosa parlano, chi l’ha scritta, cosa ha scritto… In America non credo che questo importi molto. Sentono cantare George Strait e pensano che lui scriva tutte le sue canzoni; il che non è vero. Ti saprebbero dire sicuramente dove si trova in questo momento ma non che non scrive le sue canzoni… Cose così. Quindi penso che sia stato corroborante per me fare un giro in Europa, vedere un pubblico così genuinamente appassionato della musica che facciamo. Devo dire che sono molto entusiasta dell’idea di essere qui e ti dico che già non vedo l’ora di tornare, sai?
Ma tu riesci a parlare facilmente con il pubblico europeo alla stessa maniera in cui riesci a intrattenere il pubblico americano?
Guarda, devo dirti che abbiamo una traduttrice stasera sul palco, il che aiuterà parecchio… In Germania ieri sera durante lo spettacolo, invece, mi ero abituato a parlare molto lentamente e in un modo o nell’altro sono riuscito a farmi capire… Sai, tipo “how-are-you?” (ride) … Ma è stato divertente, loro erano grandi … bevevano tutti birra, io pure… e come sai la birra è una lingua universale!
E’ vero che stai pensando di scrivere una commedia per Broadway?
Si. Anzi, sono proprio nel bel mezzo della scrittura. Direi oltre la metà. E’ un musical dal titolo “The Waitress”, è tratto da un film [“The Waitress”, 2007, scritto e diretto da Adrienne Shelly, ndr] e sarà a teatro penso alla fine di quest’anno o all’inizio del prossimo. Sto scrivendo le canzoni per questo spettacolo ed il regista è lo stesso di “Hair”, che ha prodotto anche “Chicago”… E’ una grande produzione e sono molto emozionato di prenderne parte, anche perché sono quasi 30 canzoni. Un grande progetto.
Parliamo della band che ti accompagna stasera.
Qui alla Cantina sono accompagnato solo dal mio chitarrista e dal mio mandolinista/violinista. Siamo tutti e tre sul palco, non è la grossa produzione che di solito portiamo in giro nel nord America perché non c’era materialmente tempo per organizzare qualcosa di più grande. Di solito io uso un pianoforte a coda mentre qui avrò una semplice tastiera perciò sarà tutto diverso perché dal punto di vista dello spazio a disposizione non è facile muoversi in uno show del genere. Abbiamo imparato molto anche da questo, specialmente la prima volta che l’abbiamo fatto.
I loro nomi?
Jeff Smith e Jason Fits. Sono bravissimi. Vedrai, ti piaceranno.
E poi volerete a suonare in Messico ed in Australia…
Si, andremo in Messico a metà febbraio dove faremo un concerto benefico per i bambini delle scuole con i miei amici autori Brett James, Jeff Steel ed un altro paio. Dopodiché breve ritorno negli States e poi voleremo in Australia. Suoneremo un po’ dovunque, il che non è male perché puoi portare la tua musica al resto del mondo…
Un agenda bella fitta eh? Questo non lasciamolo spazio alla propria vita privata o al tempo libero…
Si, puoi credermi, lo so! E’ da pazzi! Poi sai, io ho due figlie di 6 e 11 anni e questo è stato il periodo più lungo in cui sono stato lontano da loro. Le vedrò domani. Non sempre è facile, loro sono così giovani ancora… Io sono un papà single e non è facile per me, ma per fortuna la mia famiglia mi aiuta parecchio!
E’ la tua prima volta in Italia vero?
Assolutamente si. Ma voglio tornare, voglio rimanere più a lungo e andare a Roma, visitare il sud del paese. La prossima volta voglio venire per tipo due settimane e farmi un bel tour dell’Italia. E spero di poterci tornare anche a suonare molto presto in Italia!
E noi ce lo auguriamo tutti, Phil!
Keep it country!
Massimo Annibale
©2010 CountryStateLine
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Bravo Massimo! non ti perdi un evento. chissà che emozione intervistare un personaggio del calibro di Phil Vassar. se non ci fossi tu a tenerci un pò aggiornati qui in Italia…come faremmo? il tuo sito non tralascia mai le notizie importanti, sei impeccabile. complimenti